LA MIA VITA in breve
(aggiornata al dicembre 2008, anno del topo d terra)
Nasco il 28 maggio 1957 a Pistoia.
Passo i primi 12 anni a Cuneo in Piemonte, e i secondi 12 (gli anni belli della prima gioventù: gli anni Settanta) in Liguria, ad Albenga. A 24 anni, nel 1981 (già vekkio, già ho fatto tutto), mi trasferisco a Roma dove vivo tuttora.
A 5 anni xdo la mamma.
A nn ancora 18 – il 1°maggio 1975 – prendo il mio primo acido (mezza pastikketta d LSD), nn faccio ritorno a casa e nn vedo mai più mio padre (due anni dopo, nel 1977, vengo a sapere x caso ke era morto da tre mesi).
Dal 1975, a tutto il 1983, sono stato un hippie: sacco a pelo, autostop, potere alle kitarre acustike!, boski x amare e conoscere il canto irenico della natura, anfratti metropolitani x conoscere e amare il fascino sulfureo delle xiferie.
Sono stato in galera 4 volte, sempre innocente.
Ho fatto: il gommista, il macellaio, il muratore, l’imbiankino, il bracciante agricolo, l’inserviente d circo (un culo pazzesco, in condizioni d sfruttamento e maltrattamento impensabili x ki nn sta nell’ambiente, ma c’erano anke risvolti interessanti: spingevo in pista gli elefanti); nel 1978 ho lavorato 4 mesi in fabbrica, in Olanda, alla catena d montaggio (poco prima ke la robotizzazione industriale la abolisse quasi del tutto).
Ho lavorato tre anni, dal 1978 al 1981, in una comune agricola hippie in Liguria – la cooperativa “Terra Madre” – dove si praticava, in tempi pionieristici, l’agricoltura biologica e biodinamica (i contadini del tempo c prendevano x il culo).
X due lustri tondi, dal 1978 al 1988, sono stato vegetariano (ultimamente mi impongo dei xiodi di vegetarianesimo quale mio xsonale contributo alla soluzione dei problemi economici ed ecologici del Pianeta).
Nel 1995 mi sono sposato. Ho mantenuto la famiglia x 10 anni facendo il musicista d strada – il busker – a Roma, specialmente a piazza Navona.
Nel 2001 (una settimana dopo l’attentato alle Torri Gemelle: il 18 settembre), a causa d un infarto, sono morto x 3 mnt, e poi resuscitato grazie all’8va scarica (300 volts) d un defribillatore.
Ho mangiato al Circolo San Pietro coi Fratelli Straccioni, e al desco del proconsole imperiale nella residenza privata dell’ambasciatore americano (villa Taverna, Roma). Ho cominciato a usare il cellulare solo alla fine del 2005 (dopo la separazione da mia moglie). Amo idealmente internet ma lo padroneggio poco. Quale mio piccolo contributo contro l’inquinamento nn ho mai conseguito la patente d guida.
Motivi x vivere: mio figlio Giordano, l’esagerata bellezza delle donne e dei tramonti, la Sampdoria, la battuta comica miracolosa, e musica, filosofia, libertà, vino e ganja, la Natura, e i mille amici e amori ai quali, x dire grazie, tutto internet nn basterebbe.
(Notizie approfondite sulle mie attività artistike e culturali nei blogs)
UNA STORIA DELLA MUSICA ROCK DEGLI ULTIMI 30 ANNI ALTERNATIVA IN TUTTI I SENSI
(ovvero: la mia vita artistica in pillole)
– presentazione –
“Io mi ricordo tutto! Voi nn vi ricordate un cazzo!”
Richard Benson (da Chiambretti)
Nn concepisco interesse ke nn si accompagni al bisogno voglioso d esprimerlo pubblicamente. X questo mi sono sempre dato da fare a promuovere con cenacoli e iniziative gli interessi culturali ke hanno segnato la mia vita, nn solo artistica.
Da giovane ho condiviso i miei gusti e i miei ideali con quelli d una generazione ke purtroppo nn c’è più. Al mio ideale hippie facevano capo tanti ragazzi e ragazze ke hanno finito i loro gg tra le braccia sekke dell’eroina e ne sono morti. Scrivo su questa pagina il nome d Attilio Rombi detto Attila, d Ugo De Stefanis detto Ombra, d Mimmetto, Mikele, Domenico, Sandro, Maurizio, Albino e tanti, troppi altri (un popolo devastato dalle droghe pesanti come i nativi americani dal vaiolo): ragazzi ke, come me, credevano in una vita diversa e migliore, ke ascoltavano i cantautori italiani, la canzone popolare, ma insieme – nn c’erano dogmi e pregiudizi – anche il rock sinfonico, lo psikedelico, il blues rock, l’hard rock, il folk americano, la west coast (il tutto andava all’epoca in Italia sotto il nome iniziatico ed evocativo d “musica pop”). L’acqua è passata e i miei amici nn c sono più: ki stroncato da un’overdose d robaccia (un bollettino d guerra), ki bruciato anni dopo, x colpa del rito malsano dello scambio della siringa, da una malattia nuova d zecca: l’aids. Nessuno d loro ha fatto in tempo a vivere davvero il tempo nuovo, a riciclarsi sotto le insegne delle odierne culture giovanili (tribalistike, nn ecumenike), affermatesi dagli anni ’80 in poi – il punk-wave, il dark, l’hip hop, il metal, il reggae ecc.; molti d loro nn hanno neanke fatto in tempo a vederle nascere queste mode.
X questo ho sempre creduto ke il mio primo dovere morale fosse quello d favorire e xseguire la riproposizione e la diffusione dei ns gusti e delle ns idee, in tutte le forme possibili – e nella misura delle mie purtroppo limitatissime capacità – prima ke fossero dimenticate del tutto. Il destino mi ha concesso d passare indenne traverso quella devastazione: nn mi resta ke ripagarlo rimanendo fedele a me stesso, alla mia storia, ke è quella dei miei compagni ke nn c sono più – ma ke sono sempre qui, almeno finké io saprò essere coerente con loro e con me stesso. Posso farlo in un modo solo: continuando a vivere, pensare, agire come ho fatto finora, da ormai raro esemplare (altri direbbe sopravvissuto) degli anni Settanta. Xciò le mie attività culturali (parolona pomposa x parlare della vita) vertono alla valorizzazione e alla propalazione d certi codici dell’arte e del costume prodotti o consumati in quel decennio – roba semplice, alla mia portata – e tali forme sono principalmente tre: l’ARTE D STRADA, il ROCK-FOLK AMERICANO e il CANTAUTORATO ITALIANO – con l’appendice della MUSICA POPOLARE (e un RIMPIANTO).
L’ARTE D STRADA
Innanzitutto alcuni elementi tecnico-storici ricavati dalla mia esperienza xsonale.
Grazie al fatto ke sapevo suonare e cantare, e alla scoperta ke lo potevo fare x strada, delegando alla sensibilità dei passanti il peso morale del mio sostentamento fisico attraverso l’ostensione del “Cappello” – dio imprescindibile del busking – ho potuto vivere a Roma x 25 e più anni, in modo direi più ke soddisfacente. Ho iniziato come outsider culturale – quando ancora il busking a Roma nn lo praticava nessuno – cantando a gola acerba e spiegata canzoni d Dylan e d Neil Young, d Bowie e Rod Stewart, d Guccini e De André (tutto l’armamentario anni Settanta), in un xriodo in cui (la prima metà degli Ottanta) nn c’erano in giro molte orekkie disposte a recepire quel materiale così importante e prezioso. A fine giornata, il contenuto monetario del Cappello (in realtà era la custodia della kitarra ripiegata su se stessa, con il mukkietto delle offerte sopra) era spesso tristemente magro. Ma erano anke i gg della mia gioventù, quando, come si dice, mangiato io mangiato tutti. Se la strada era troppo fredda o se pioveva, mi buttavo, d giorno, in metropolitana, e d sera dentro ristoranti e pizzerie d Campo De Fiori. L’ho fatto x anni.
In seguito, quando il busking divenne più scafato e professionale, fu introdotta la seconda figura fondamentale dopo il Cappello: il Bikkiere. Così, accanto alla figura del musicista solitario fece la sua comparsa il mitico “scollettatore”. Si scoprì, x mero calcolo economico 2+2 (è una legge economica universale), ke il pubblico passante diventa più volentieri anke pagante se trova sul suo cammino un essere in carne e ossa ke gli ficca sotto il naso un Bikkiere tintinnante d monete, nel mentre, con concetti brevi e ficcanti, attira la sua attenzione sulla figura del musicante ke si esibisce lì, sotto il cornicione, e sul fatto ke una cotale bravura artistica merita senz’altro una generosa offerta. In pratica, si scoprì ke i soldi arraffati in due, musicista e scollettatore, anke se divisi in parti uguali, garantivano a entrambi una parte congruamente superiore a quella raggranellabile suonando da soli. Fu la scoperta della prospettiva. Da quel giorno, la musica d strada a Roma nn è stata più la stessa. Si sperimentavano tecnike, si elaboravano strategie. Da subito si seppe ke la presenza nel ruolo d “scollettatore” d una donna, tanto più se carina, ingrossava le entrate in misura esponenziale. Ma la fortuna d avere una scollettatrice femmina fissa nn era data a tutti, anzi era una rara eccezione. Anke xké le femminelle del busking, all’epoca, erano tutte cantanti o musiciste, e quasi sempre, x mero rigurgito femminista, preferivano suonare ed esibirsi anziké essere considerate delle mere makkine rapina soldi. Ho avuto la fortuna d “lavorare” – e quindi d suonare, e quindi d vivere – x almeno 10 anni con alcuni esemplari eccezionali del busking femminile romano anni ‘80/90, e penso alla mia cara sorellina Luana Guardo, ma anke a Mikela Calabrese, la “flautista d dio”, ke nn aveva mai preso una lezione d musica in vita sua (e gli studi teorici se li è fatti dopo, da grande), ma ke da via della Maddalena è finita a mettere il suo flauto incantato sull’ultimo disco d Fabrizio De Andrè, “Anime Salve” (la frase d “Le acciughe fanno il pallone” è lei ke la suona), rimanendo x sempre nella Storia. Questo culo c’ho avuto io, ragazzi!
C si doveva arrangiare, tra coppie d musicisti, a organizzare il lavoro: c si alternava alla kitarra e alla colletta ogni 4 / 5 pezzi, così da nn stressarsi mai troppo né in un ruolo né nell’altro. Lo sbikkieramento aveva xaltro la stessa dignità deontologica della xformance, essendo a sua volta prassi costitutiva, fondativa, del busking. Tra i due, tra il musicista e lo scollettatore, è il secondo ke deve risultare più sveglio, ke deve avere la battuta pronta, ke deve far sorridere il passante. Regola nmr 1 del Sacro Bikkiere: se riesci in qualunque modo a far ridere il passante, quello sgancia i soldi 8 vlt su 10. Benké io (almeno a detta dei commessi d “Cenci” d via d Campo Marzio) fossi il Menestrello con la voce più bella mai udita in quelle zone, ero altresì uno scollettatore provetto. In quel campo posso ben dire d aver creato una scuola. Mi pareva d essere tornato agli anni Settanta, agli anni belli, quando ogni hippie ke si rispettasse viveva d nuda colletta (“m’impresti cento lire?”, dal 1973 al 1979, te lo sentivi kiedere ogni dieci metri nell’Italia tutta), e io, d prestiti d quel tipo, c avevo campato x anni. Potevo ora rimettere in funzione i miei recettori psikici già predisposti a decifrare, sul piano puro dell’intuito, il pto G della generosità altrui, e divenni un vero maestro. Lesson nbr 1: se vedi appropinquarsi una ragazza devi dirle: “Ciao Fiorellino d campo” (si raccomanda d modulare vocalmente la metafora floreale), “Ke fai: sganci una monetina x questo bravo musicista?”. E se lei è generosa e te la sgancia, le devi dire con entusiasmo: “grazie, Fragolina d bosco!” (puoi esagerare, con: “più siete carine e più siete generose”), e a quel pto la vedi andar via tutta leggiadra e briosa, le guance imporporate d bellezza soddisfatta: le hai messo in piedi la giornata. Nel caso ke, invece, la tipa se ne frega della tua metafora floreale e nn t molla una lira, le devi dire: “Nn importa! Grazie lo stesso, Carciofino!” (variante: “Cicorietta”). A quel pto, la passante fa una mezza smorfia e fugge (se protesta dura poco, xké nn ha argomenti), ma tu puoi star certo ke la prox vlt, con te o con un qualunque altro scollettatore, anke lei sgancerà la sua parte. Mi rivolgo alle femminelle in ascolto: se vi capita oggi d passare davanti a una coppia d busker, e quello ke scolletta vi kiama “Fragolina d bosco”, sappiate ke quel collega mi dovrebbe pagare i diritti d’autore.
La seconda rivoluzione del busking moderno – quello post anni ’70, almeno nella sua versione romana, ke è paradigmatica – riguarda l’amplificatore.
Uno dei maggiori problemi del busking è il rumore. Suonare in una via del centro, ma anke in certi pti d piazza Navona, dove la gente c vive o c lavora, e nn sempre è felice d sorbirsi tutti i santi gg x 8/9 ore suoni e canti più o meno ispirati provenienti dalla via sottostante, pone dei problemi oggettivi d volume. Se nn ke, x strada, in acustico e senza ampli, nn si può fare roba molto fine e delicata – x es. il jazz, la musica classica, gli arpeggi raffinati – x il semplice motivo ke nel caos della città nn t sente nessuno e nn fai una lira. Sei costretto a fare delle songs, del folk rock, del folk blues ecc., aiutandoti con la voce. I più vekki d noi, onde fare meno casino possibile e dovendo quindi cercare un equilibrio espressivo in kiave rigorosamente acustica, ma avendo nel contempo la necessità d ottimizzare il margine d impatto sonoro a disposizione, la relativa presenza scenica ecc., si finì – io x primo – x ridurre all’osso le necessità strumentali. In sostanza c si concentrò sull’uso congiunto d voce e kitarra acustica. Ciò ebbe delle ovvie ricadute sul piano tecnico-stilistico. Da questo humus prende vita il particolare strumming dei busker della mia generazione, ke è qualcosa d più della semplice strimpellata – particolare ke spesso sfugge all’orekkio d tanti musicisti colti – xké ha in sé diversi elementi elaborati e complessi, tipicamente stradaioli, derivati da mere esigenze d lavoro. In primis, la dinamica elastica, capace d accordarsi, con repentini cambi d volume (la cosiddetta “dinamica”), alle esigenze primarie del testo e della melodia, ke è altra cosa dalla strimpellata grossolana, ripetitiva e monotona. C’è poi il problema armonico: la kitarra acustica deve fare la parte d un’orkestra intera, e a tal fine c’è poco da ricamare: l’accordo deve essere deciso, pieno, totalizzante, ma anke arrikkito d volta in volta da microvariazioni e soluzioni armonike capaci d caratterizzare e unicizzare ogni singolo brano eseguito. Infine, viene l’istanza ritmica, e qui entrano in gioco i bassi scampananti, la battuta martellante: una tecnica d cui Dylan, Neil Young e Springsteen sono maestri.
L’amplificatore – il piccolo ampli d strada, 10/15 watt, alimentato a batteria, in virtù del quale anke x strada diventa possibile suonare la kitarra amplificata (e quindi il jazz, la classica ecc.) – fu introdotto da artisti ke usavano poco la voce, ma ke in compenso sapevano fare bene la solista. L’ampli, x quanto piccolo, produce un volume d gran lunga superiore a quello d un’acustica, ed è molto più rumoroso: così i primi busker dotati d amplificatore iniziarono a lavorare nel posti più sicuri, dove c’era la certezza d nn disturbare nessuno, ovverosia: le stazioni dalla metropolitana. Alla lunga però, la vita del topolone, sottoterra a svisare x ore, senza mai vedere la luce del giorno (l’ho fatto ank’io svariate volte), è una prospettiva stancante. Così, nei primi Novanta, i kitarristi elettrici presero a migrare, e vennero a lavorare insieme a noi all’aperto. Esibirsi in duo, con un bravo kitarrista ke t fa la solista tra una strofa e l’altra, è un piacere sia x ki suona e sia x ki ascolta. E con ns somma sorpresa si scoprì ke gran parte dei ns timori precedenti, x via dei quali, da noi stessi, si circoscriveva la ns arte alla sola dimensione acustica, erano infondati: a patto d nn alzare il volume al massimo e d spegnerlo durante le ore del riposo, l’amplificatorino d strada nn disturba più d tanto i residenti e i lavoranti – nn più d quanto prima li disturbassero il martellamento ritmato dell’acustica e il canto a gola libera. Nei Novanta l’uso degli ampli divenne capillare, e a cavallo del 2000 si sono insediati anke a piazza Navona. Sebbene alcuni busker “resistenti” – e io fra questi – nn si siano mai voluti piegare del tutto alla nuova condizione, e tuttora preferiscano esibirsi “nature”, sarebbe stupido negare ke l’ampli consente opzioni nuove, più organizzate e professionali, dell’attività busking – ciò ke si traduce soprattutto in una maggiore quantità d denaro incamerato.
Quando ho cominciato io, nel 1981, a fare il “busker” a piazza Navona e x le strade d Roma, la definizione nn esisteva: c kiamavano menestrelli o posteggiatori o rompicoglioni. Vigeva ancora il divieto d praticare ogni forma d’arte in luogo pubblico, sancito dal famigerato Codice Rocco d epoca fascista (l’art. 121 del Testo Unico d Pubblica Sicurezza – il Tulps del 1931 – testo assurdo, in cui si faceva d ogni erba, appunto, un fascio, dove l’artista d strada veniva equiparato al ciarlatano, al truffatore, al venditore d armi). Una legge liberticida, ke era incredibilmente passata indenne a ’68 e ’77. E poiké noi, artisti d piazza Navona, ce ne strafregavamo dei divieti, eravamo quotidianamente xseguitati dai vigili urbani d Roma, i quali nn solo c impedivano d svolgere il ns sacrosanto lavoro ma finanke c comminavano multe standard da mezzo milione d lire. Ne ho beccate 6, alla fine degli anni Ottanta, ma nn le ho mai pagate. Le multe e le vessazioni da parte dei vigili portarono alla nascita dell’associazione “Stradarte” (1990-1994: io avevo la tessera nr 5), ke cominciò a battersi x il diritto all’espressione artistica libera e pubblica. In qualità d dirigente d Stradarte fui l’unico presente, in una stanza dei gruppi parlamentari d via degli Uffici del Vicario, alla stesura del secondo disegno d legge in deroga all’art.121 (da poco, c’era già stato quello presentato da Francesco Rutelli), avente come primo firmatario Niki Vendola. Ancora adesso continuo a battermi x i diritti e le libertà dei busker romani come sub-presidente della neonata associazione (aprile 2007) degli artisti d piazza Navona “Arte nel Tempo”.
Fin dai gg d Stradarte ho partecipato e animato, ma anke promosso e organizzato – mai a scopo d lucro – festival e meeting d Arte Itinerante in diverse località italiane. X es., insieme all’amico fraterno e polistrumentista eccelso Felice Zaccheo detto Jesus, nel biennio 2007/2008 sono stato direttore artistico del “Festival Busker d CARPINETO ROMANO”, uno dei più antiki del ns paese (il capostipite è quello ormai famoso d Ferrara, ke è del 1989, ma Carpineto Romano ebbe il suo esordio – cui partecipai come busker – già l’anno successivo: il 1990). Scusandomi x l’enfasi, posso dire d essere un’icona di questo festival, ke si tiene l’ultimo weekend d agosto in uno dei luoghi più belli, e più misconosciuti, d’Italia e del mondo.
Con la mia Great Sister, la cantante canado-abruzzese Manola Colangeli, artista del coro del Teatro dell’Opera d Roma (anke lei, x molti anni, Direttore Artistico del festival d Carpineto) e il ns gruppo countryfolk americano, uno dei più longevi del genere nel ns paese, gli “Old Bench” (d cui dirò), abbiamo animato decine d iniziative busker, vincendo il 1° premio a un altro festival storico dell’arte d strada, da noi molto amato: lo ”On the road Festival” d Pelago (FI), edizione 1992.
Tuttora, quando passo xiodi finanziariamente bui – cioè sempre più spesso co sti kiari d luna – prendo la kitarra, salgo sul tram e vado a lavorare a piazza Navona, coi vekki colleghi: Ruggiero Cilli “the President”, Robertino Lucentini detto Ponghetto, Luana Guardo (una delle prime busker donna italiane), il mitico Enzo “Wooden Fingers” Campa (con il quale iniziai a fare il busker nel 1981, e d tutti quelli ke cito qui lui è l’unico con una carriera più longeva della mia), Angelo Blu (uno dei migliori armonicisti europei), Mario “il Mancino” Colaluca, Marcello “Speed King” Calabrese, Luciano “Marc Knopfler” Poleggi, Paolone “Roccia” Lorusso, Dinetto “Er Cinese” Rossi, e poi i mimi e i giocolieri e i clown e le statue umane e ancora i 1000 altri, inclusi quelli ke calano coi loro strumenti e i loro travestimenti x una breve stagione, e poi scompaiono x sempre. La magica Madre Piazza Navona è impregnata dalle ns voci, i sassi rimbombano dei ns suoni e le fontane cantano insieme a noi. Questa è una delle poke certezze della mia vita.
La xformance d strada, oltre ke mezzo d sostentamento, è anke il medium privilegiato della trasmissione e dell’esecuzione (tra i mille possibili) d due generi musicali tipici della dimensione on the road (ke nn a caso sono praticamente desaparecidi dai canali dell’industria musicale ufficiale): il folk americano e la canzone d’autore italiana. Si tratta d generi ke x me rivestono un’importanza ke esonda il mio curriculum d artista da strapazzo: sono la mia stessa vita. Rivedo lo sfavillìo lancinante del sole della Liguria del 1977, ke si frange sul parabrezza della A112 Abarth, nel cui stereo urla la musicassetta dello storico “Greatest hits” d Bob Dylan, e odo la voce d Germano alla guida ke, attraverso una cascata d sillabe nasali, mi dice: “Senti ke cazzo d maniera d trascinare la fine delle frasi!”. E rivedo Attila dondolante, ke se ne va in camera con lo spinello acceso, mangianastri philips in mano, e dopo un po’ si stende contro la spalliera del letto a godere (lui! con la sua 3° elementare) della più profonda e vera – aristotelica – catarsi estetica sulle note musico-semantike d “Volume 8” d Fabrizio De Andrè (disco scritto insieme a De Gregori). Lo strumming d kitarra acustica è alla base d queste moderne branke d musica pop: il ritmo del verso, il suono della parola cantata, secondo le infinite, spiazzanti possibilità espressive dell’interprete, ke ricama un senso poetico unico ed essenziale sul tappeto d un accompagnamento scarno e d una melodia scarna ank’essa, ma viva e vitale: ecco la musica ke io amo. Oggi, pare ke la critica musicale abbia finalmente formulato la dizione corretta del fenomeno, ke è kiamata “song da marciapiede”. E’ proprio lui, lo riconosco: è il genere d cui io, x tanti anni, sono stato portabandiera, come Artista d Strada, sui marciapiedi d Roma. Su questa base concettuale, oltre ke pratica, il mio impegno nella diffusione delle due forme d folk-rock – americana e cantautorale – è stato e sempre sarà una missione.
IL FOLK-ROCK AMERICANO
Quando ero giovane io, vigeva una distinzione kiara e netta fra “folk” e “folk music”. Folk era il canto dialettale italiano, specialmente del sud, o erano i valzer e i tanghi in salsa italiota. Oggi (visto ke lo potrebbe reinterpretare anke Capossela) potrei ridurmi a benvolere quel famoso “Bandolero stanco sul suo cavallo bianco” ma all’epoca mi sembrava una boiata pazzesca. C’era la Nuova Compagnia d Canto Popolare ma c’era anke, ed era sempre in tv, Toni Cukkiara; c’era il Canzoniere del Lazio ma c’era anke, ed era molto più famoso, Mino Reitano. La folk music, invece, era una sfera viva, coerente e priva d contraddizioni: era – cazzo! – Woody Guthrie e Pete Seeger e Bob Dylan e Joan Baez e Dave Van Ronk, il primo Donovan e quasi tutto Phil Ochs (suicidatosi 8 anni dopo Luigi Tenco). Era tutta quella nebulosa d kitarristi acustici col ferro a tracolla, ke girava nei localacci grandi e piccoli d’America, gente ke sapeva costruire una linea melodica autosufficiente x raccontarti una storia d vita vera, con un capo e una coda, senza tante menate xsonalistike, ricavando ispirazione dal racconto d un ubriaco o lavorando sull’articolo d cronaca d un giornale. Questo della folk music è uno dei 2 corni concettuali – l’altro è il blues – su cui si è basata quasi tutta la produzione “rock” degli anni Sessanta e anke buona parte dei Settanta.
Nel campo della musica – e nn solo – esistono due tipologie espressive principali: il Ripetitore e il Moltiplicatore. Il Ripetitore è quello ke impara a memoria un ventaglio molto ristretto d brani standard (da 3 a 9: nn meno delle Grazie nn più delle Muse) e ripete sempre quelli, in infinitum. E le rifà ogni volta uguali, con un rigore filologico ammirevole, x settimane mesi e anni. In genere il programma musicale del Ripetitore è compatto e omogeneo. Il Moltiplicatore, invece, si rompe sostanzialmente i coglioni nel rifare sempre gli stessi brani, e finisce x impararsi canzoni sempre nuove, ampliando all’inverosimile la base repertoriale cui attingere, finake ripensando e stravolgendo – spesso inconsciamente – l’interpretazione dei brani stessi. Il repertorio del Moltiplicatore è assolutamente eclettico e eterodosso. Xsonalmente, venendo dalla scuola d Dylan (uno ke si rompe i coglioni anke a fare i pezzi propri, e spesso li ripensa fino a renderli irriconoscibili) faccio parte della seconda categoria.
Nel corso della mia lunga e tuttora vigente gavetta – d strada e d palco – ho avuto modo (diciamo ke è stata, e ke tuttora è, una necessità professionale) d mandare a memoria qualcosa come 4/500 canzoni in lingua inglese (più altrettante in Italiano e finanke alcune in spagnolo). Magna pars è fatta d songs della tradizione. Ho pescato nel mare magnum dei folksingers e dei rockers, dalle ballads tradizionali (le canzoni della working class, dell’epopea west, i canti dei fuorilegge, le passioni torride, gli amori delusi ecc.), fino agli hits dei grandi autori e dei migliori gruppi del trentennio 50/70 (da Elvis a Neil Young, passando x Dylan e i Rolling Stones, ma come faccio a dirli tutti? anke xké poi c’è un sacco d roba degli Ottanta, dei Novanta ecc. ke mi piace un casino e ke me la sono imparata cmq), basando costantemente la mia scelta sul mio gusto libero, sui miei interessi e, last but not least, sulle mie esigenze d lavoro, in quanto kitarrista “da marciapiede”.
Ma il mio gusto e la mia sensibilità si nutrono delle mie esperienze esistenziali: la mia vita, con tutto quello ke c’è dentro, dagli amici alla politica, viene sempre prima d tutto. Faccio un esempio ke molti potranno capire. Nella famosa diatriba – ancora vagamente in auge quand’ero ragazzo – fra i Beatles e i Rolling Stones, oggi, nel 2009, posso ammettere d preferire d gran lunga i Rolling: ne suono diverse canzoni, mentre dei Beatles nn faccio quasi più nulla. Ma x lunghi anni, immerso nella dimensione culturale dei Settanta, ho sinceramente fatto il tifo x i Beatles. E nn solo xké la figura sociale, politica e umana d John Lennon nn ha eguali (claro?), né solo xké gli assoli d George Harrison sono quei piccoli capolavori che sono (era il kitarrista preferito d Mick Ronson degli “Spiders from Mars” d Bowie, xké, diceva: “Gli assoli d George nn hanno mai una nota in più né una in meno del dovuto, e questa xfezione nn la si ottiene se nn si è dei grandi kitarristi”). La vera ragione – serenamente rimossa dagli snob rokkettari dello “i Beatles mi fanno cagare” – è ke, mentre i Beatles facevano propaganda alle droghe psikedelike – marijuana, LSD – i Rolling Stones facevano pubblicità alle droghe pesanti. E vi assicuro ke ascoltare “Brown sugar” o “Sister morphine” mentre tutto intorno i tuoi amici si fanno le pere e si mutano in ectoplasmi nn è cosa x niente piacevole. Tutto questo x dire ke, anke nel gusto e nelle scelte musicali, ognuno si sceglie i suoi parametri critici: i miei – faticosamente, e certo anke contraddittoriamente, assunti – sono anke questi.
Nel corso del tempo – da cantante, kitarrista e armonicista – ho fondato diverse realtà musicali ke hanno avuto tutte, sempre e cmq, una storia importante, e con le quali ho opportunamente provveduto a diffondere il Verbo del folk-rock in lingua inglese.
Storia degli OLD BENCH.
Stando alla leggenda ufficiale – cui io stesso, col passare degli anni, ho contribuito a dare vita e credito – il gruppo è nato nel gennaio 1990 con delle xformance tenute sui palki delle facoltà universitarie occupate dal movimento della Pantera (1989/90). Ciò è vero – è verissimo: a Roma si fecero brevi apparizioni, due/tre pezzi max, a Magistero, al cinema Puccini d Casal Bertone, all’ex Andrea Doria, a piazza del Popolo – ma questo nn è tutto. C’è infatti una stradina nel cuore d Roma, tra piazza Navona e via dell’Orso, ke si kiama vicolo dei Soldati, la quale ha avuto una certa rilevanza nella diffusione del folk americano in Italia.
Nei primissimi Ottanta – dall’81 all’83 – in questo vicolo era operante un vero teatro classico, l’Old Goldoni, posto metafisico, con le volte del soffitto affrescate da dipinti del Settecento, dove gli avventori – in tempi d sigaretta libera – passavano le notti sbracati, tra canne e sbevazzi, davanti a memorabili xformance d artisti incredibili, kitarre nashvilliane, banjos of the bayou, armonike desertike, corde vocali arrokite d moonshiners e mille altri miracoli. In quei giorni – in quelle notti – si respirava davvero un’aria nuova, e sembrava davvero ke il folk americano, con le sue tecnike e i suoi generi – il finger picking, il ragtime, le ballads – dovesse diventare una musica d successo (nn fu così, ma il tempo va avanti). Purtroppo – ma anke molto opportunamente, visti i danni incipienti agli affreski e alle arkitetture causati dai quotidiani sabba folkettari – l’Old Goldoni fu fatto kiudere dalle Belle Arti.
A quell’epoca – molti anni prima d costituire gli Old Bench – già c si incontrava, Manola, Antonello e io, con gli altri amici dell’indotto culturale, e già si suonava e si cantava insieme. Se nn ke, nel gennaio 1990 (l’Old Goldoni era ormai kiuso da una vita), dalla parte esattamente opposta del vicolo dei Soldati fu aperto un localetto d 35mt quadrati, il cui gestore – sono fiero d scrivere su questa pagina il nome amico del grande Marco Ciani – era stato capace, in uno spazio così ristretto, a costo d due/tre tavolini in meno, x puro e disinteressato amore x il suono delle kitarre, d ritagliare un piccolo palco, attrezzato d impianto voci, destinato ai gruppi live. In quel localetto, sempre affollato all’inverosimile, ke si kiamava “Vicolo 49” (prendeva il nome dal nmr civico del vicolo), gli Old Bench fecero le loro prime prove organike d palco. Fu lì dentro ke, una sera, proposi il nome del gruppo: Vekkia Panca. “In ke senso?”, mi kiesero Manola e Antonello. “Nel senso della vekkia pankina d marmo d piazza Navona dove suoniamo tutte le sere”, risposi io. Ed era la verità. Ma nn era tutta la verità. In realtà, io avevo anke considerato l’assonanza con il nome d uno dei grandi gruppi ke tenevano il palco all’Old Goldoni, giù, dalla parte opposta della viuzza, durante la breve stagione felice del folk americano dei primi Ottanta a Roma: i rudi OLD BANJO BROTHERS. Il nome Old Bench – ke fu subito accettato dai miei compagni d avventura – deriva in realtà, x assonanza, anke da quello.
Le prove, come ho detto, avvenivano sul marmo ghiacciato (o rovente) d una vekkia pankina della Grande Madre Piazza. Manola Colangeli e Antonello Amalfitano detto Dylan Doc provavano già insieme da qualke settimana. Io mi unii a loro, portando la mia doppia kitarra e la mia doppia voce a quella, già immensa d suo, d Manola. Si era un trio acustico – oggi si direbbe “unplugged” – e si provava, live busking, quello ke poi sarebbe diventato il repertorio standard della band, rimasto invariato x parekki anni. Si partiva con alcuni traditionals, rigorosamente folk, roba scritta tra Ottocento e primo Novecento (“Tom Dooley”, “Wildwood flower”, “Banks of Ohio” ecc.), canzoni ke Manola cantava da bambina in Canada, e ke ora reinterpretava con la sua voce straordinaria, unica al mondo, sola vera Joan Baez italiana. E si kiudeva con una rassegna d covers dei più recenti decenni d’oro della folk music internazionale, i Sessanta e i Settanta, con evidenti dylaniate e qualke tratto d rock psikedelico acustico. Quattro anni dopo, Dylan Doc c privò della sua kitarra bella, rigorosa e permeante. Lo conoscevo da 10 anni, e c legava un amore viscerale x Dylan. Deve il suo nick-name al menestrello d Duluth e, insieme, al suo essere uno psikiatra freudiano (“Doc”), uno spirito corrosivo simil Woody Allen (cui somiglia anke fisiognomicamente). Purista troppo integerrimo, nn condivise la svolta semi-elettrica del gruppo, e uscì nel 1994.
Con gli Old Bench, oltre alle tante xformance d strada (come ho detto, si vinse Pelago nel 2002), oltre ai concerti in mezza Italia e nei locali d Roma, teatri e/o cantine, si ha letteralmente spianato il tratto d autostrada Roma-Napoli ke mena alla Ciociaria: sono ben rari i paesi e le cittadine del medio-basso Lazio dove Manola e io, in duo acustico o col gruppo, nn si sia suonato e risuonato più volte. Si era una sorta d local heroes, d icona folk-country – il genere del resto ha radici agresti – e posso ben dire ke la ns storia artistica ha finito x coincidere con il boom della creatività espressiva d quelle zone: oggi i paesi del Lazio sono fucine d realtà musicali le più disparate e originali. Spesso si tratta degli stessi ragazzi ke venivano ad ascoltare i ns concerti nei primi Novanta, quando, nel vuoto culturale dell’epoca, eravamo un pto d riferimento. Ancora oggi, avvertire il rispetto fraterno dei colleghi più giovani è x noi una grande gioia e motivo d fiducia.
Nel 1997 abbiamo pubblicato il ns primo e x ora unico disco ufficiale: “Folk, ballate e canzoni dell’America profonda”, sette brani del repertorio tradizionale, distribuito nelle edicole in 30mila esemplari (!) insieme alla rivista “Avvenimenti”, registrato con la sezione ritmica dei fratelli De Sena, Ezio ed Eugenio, a batteria e basso, e con il velocissimo violinista cubano Ruben Chaviano.
Gli Old Bench sono oggi un quintetto semielettrico in attività.
Storia dei FF&theBENCH
Tra il 1998 e il 2003, in seguito a uno spontaneo allontanamento da parte d Manola (oggi fortunatamente rientrato) ho ribattezzato il gruppo Franco Fosca and the Bench (FF&theBENCH), e l’ho guidato da leader vocale in modo piuttosto egregio e facendo anke cose buone, sebbene scosciute ai più. Una d queste – x nn tornare sui soliti concerti, le serate ecc. – è stato senz’altro il disco autoprodotto, stampato in numero limitato d copie e con scarsi mezzi d diffusione e promozione (“Manifesto” e “Liberazione” gli hanno cmq dedicato delle recensioni), ma con una verve assai tosta. Si kiama “La canzone americana d protesta”. Realizzato con l’aiuto del cantautore Davide Trebbi, è disco interessante xké, oltre a proporre una serie d songs incazzate e sulfuree, così contrastanti con la xcezione stereotipata ke si ha qui da noi d un’America ricca e felice, vede la partecipazione del folksinger italiano Luigi Grechi, ke intona una ruvida “Joe Hill”. X questo disco ho ricevuto xsonalmente i complimenti d Francesco De Gregori. “Poteva essere fatto meglio solo investendoci più soldi” fu il suo commento. La seconda sono due concerti davvero unici c/o l’importante rassegna estiva d libri “Invito alla Lettura” a Castel Sant’Angelo a Roma (la lettura d libri: roba troppo profonda e colta e difficile x le autorità d destra della circoscrizione del Castello, ke infatti nn c misero molto a bloccare i xmessi e a impedire ke quel bel progetto andasse avanti). Con i FF&the BENCH vi suonammo negli anni 2001 e 2002, e vi facemmo due concerti straordinari, davanti a un pubblico d decine d xsone interessanti, passanti e/o abitatori del quartiere misteriosamente versati nel Verbo del folk americano. D quello del 2003 (“Il Concerto d Ferragosto”) rimane traccia indelebile fra le mie cose come uno dei diski folk-rock live più belli mai eseguiti in questo emisfero: con la dolce xfezione vocale d Antonella Cilenti (se esiste una Signora del Gospel, è lei); con la kitarra ispirata e la quinta bassa naturale d Andrea Cantoni detto Superman; con la tosta freskezza del basso d Eugenio De Sena detto Dinamite e la suxvisione tecnico-logistica del mitologico Ezio De Sena detto Locomotiva, mezzo batterista e mezzo poliziotto – ma pulotto frikkettone, senza la pistola: uno ke vive x poter mostrare la sua bravura su un palco, dietro un set d piatti e tamburi: un capolavoro d uomo! E’ un disco ke dà le piste a un sacco d gruppi country-folk. C si trovano sopra, tra i solki, le unike versioni suonabili oggi, nel III millennio, d “Imagine” d John Lennon, d “The boxer” d Simon and Garfunkel, d “Knocking on haeven’s door” d Dylan, senza tema d cadere nel patetico. C’è poi un’altra versione, bella davvero, d “Joe Hill” – brano del quale, xaltro, Dylan dice abbastanza male su “Cronycles”, ma solo xké nn ha mai ascoltato la versione dei FF&theBench, eseguita al Concerto d Ferragosto del 2002, a Castel Sant’Angelo a Roma, x la fiera del libro kiamata “Invito alla Lettura”.
Storia dei TAMBOURINE
Nel febbraio 2004, trovando un’importante sponda nel polistrumentista, ricercatore, nnké amico fraterno Felice Zaccheo detto Jesus, ho dato fondo al mio bisogno d mettere al mondo una tribute band del mio amato Bob Dylan. Fu così ke, con la kitarra elettrica d Jesus, ke lui (pur aduso a maneggiare classike, mandolini e kitarre portoghesi) suona come Leslie West nel 1969, e con la batteria d Marco Di Nicolantonio – subentrato ad Aldo Abete detto Satana – e con Roberto Arcipreti detto Buddha al basso (è sposato con rito buddista a una donna tahilandese, e ha la pancetta da bravo Buddha), nel 2003 nacquero i Tambourine.
Il battesimo fu al più importante raduno blues del Lazio: il “Liri Blues Festival” d Isola Liri (FR). Tre anni dopo, eravamo in cartellone a “Pistoia Blues”, il pomeriggio del concerto d Bob Dylan, a una rassegna dedicata al grande poeta menestrello. Questa band, fiore all’okkiello della mia vita artistica, è oggi molto attiva. Abbiamo un repertorio ampio. In pratica, possiamo eseguire due concerti distinti, d due ore ciascuno, senza ripetere mai lo stesso brano: un primo programma d sole canzoni d Bob Dylan, e un secondo set più tirato, a tratti rock-dance, d covers angloamericane, da Van Morrison agli Animals. I brani da noi eseguiti nn sono mai fedeli agli originali, ma riarrangiati, sempre ripensati, spesso stravolti, dai Tambourine stessi.
L’esperienza dei Tambourine mi ha aperto gli okki sullo stato della cultura fra le masse giovanili del ns paese: un disastro! Da noi c sono, x un verso, la massa degli idioti, rincoglioniti dalla De Filippi, quelli ke se gli suoni Dylan t guardano con gli okki depressi e, semplicemente, nn t capiscono. X altro verso c sono i settari, ke se nn sei punk-wave – ma ke cazzo vuol dire? – sei un dinosauro. La potenza della bellezza e della melodia rock (del folkrock anglofono) è generalmente rimossa (nn è sempre così x fortuna, ma in moltissimi casi sì). Si dà il caso, però, ke i Tambourine abbiano un ingaggio settimanale fisso, tutte le estati da 5 anni a questa parte – da maggio a settembre – in uno dei grandi campeggi d Roma, il Camping Tiber. Qui, dove si suona x un pubblico d teen ager squattrinati d tutto il mondo – americani, australiani, inglesi, francesi, tedeski, spagnoli ecc. – si coglie la differenza con i ns giovani: i ragazzi e le ragazze stranieri sono attenti e preparati, generosi e partecipativi; è gente ke sa riconoscere la musica genuina, ke ascolta in rispettoso silenzio le cose d Dylan o d Donovan, e ke poi si scatena a ballare coi Rolling Stones o con Tom Petty. Certe sere mi ritrovo a cantare davanti a un muro d sedicenni, ke mi zompano davanti come giovani fauni scalzi e mezzi nudi. Ke differenza con i mentecatti e i settari d casa ns! Mi dispiace un casino dirlo, ma è così: siamo un paese d sottosviluppati culturali. E il merito, o la colpa, della scoperta d questa desolante realtà – una realtà ke balza subito agli okki, nn appena si annusa l’aria ke spira appena fuori dai ns confini – la devo proprio ai miei amati Tambourine.
Ogni volta ke viene il 24 maggio c’è ki rimembra il Piave. Io – devo dirlo, a costo d essere ripetitivo, e cmq so d nn essere il solo – nn posso fare a meno d pensare ke è il compleanno d Robert Zimmerman. Forse – si dice, si mormora – il rock è morto, ma se nn c fosse stato Dylan sarebbe morto nel 1962. Così, nel 2002, insieme all’amico Fabio Tassi, oggi scomparso, organizzammo il “Birthday 61 rivisited”, c/o un locale romano d cui l’anno successivo sarei diventato gestore: la “Folkosteria”. Vennero diversi artisti e cantanti, tra cui, a sorpresa, Francesco De Gregori, ke fece “Oh sister” e “Sara”. Io suonai “Mr tambourine”, e poi una traduzione d Mario Salis (il cantautore d piazza Navona d cui parlerò nel blocco successivo) del brano “Just like Tom Thumb’s blues”. Il 24 maggio dell’anno successivo, il 2003, sempre alla “Folkosteria”, ripetei l’esperienza dylaniana coadiuvato dall’allora web-master del sito ufficiale d Bob Dylan in Italia, mr Mikele Murino, e lì c fu l’illuminante presenza del professor Alessandro Carrera, ke lesse degli inediti e, spinto dall’entusiasmo, volle anke cantare e suonare.
Due anni dopo, nel 2005, sempre nei gg intorno alla data fatidica – 64° compleanno d Bobby – con Mike Murino e con l’apporto della studiosa del guthrismo Benedicta Froelich, ma insieme anke a tanti altri amici e amike, realizzammo una 3 gg d folk-rock americano, il “Maggie’s Farm Folk Festival” c/o un altro locale romano ke procurai io stesso, il “Rasho-mon” d via degli Argonauti, sul cui palco si alternarono, con memorabili xformace, artisti e gruppi provenienti da tutta Italia. Una curiosità: tutto il lavoro logistico e organizzativo l’ho svolto senza possedere un telefono cellulare.
Ancora adesso, appena c’è da rendere un omaggio pubblico a Dylan, a Guthrie o al folk americano in genere, molti amici mi kiamano a fare il commento musicale – come nel caso recente d un convegno su Woody Guthrie diretto dal polistrumentista Mariano De Simone c/o la Casa della Cultura d Roma; o ancora, come nel marzo 2007, sempre a Roma, alla presentazione del libro d traduzioni d testi dylaniani del già citato professor Alessandro Carrera dell’Università d Huston: “Bob Dylan Lyrics 1962-2001” (ed.ita. 2005; negli USA era già edito dal 2004).
IL CANTAUTORATO ITALIANO
X come la vedo io, nell’ultimo fin de siècle la forma canzone ha raggiunto un po’ ovunque nel mondo lo statuto d vera arte.
Nn ho mai indagato in questi termini la situazione poetica negli altri paesi del mondo ma, x quanto riguarda l’Italia, mi pare ke le Muse della poesia siano state onorate nel ns paese, in ogni sua stagione d’oro, da un numero fisso d poeti principali, d condottieri della Sacra Parola – cui sempre ha fatto da corollario una corte variegata e polimorfa d artisti ank’essi interessanti e validi ma, senza dubbio, minori.
Il numero in ballo è il 3.
Tre erano infatti i grandi poeti del primo Ottocento: Leopardi, Foscolo e Manzoni. Del pari, tre furono quelli a cavallo d Otto e Novecento: Carducci, Pascoli e D’Annunzio. E sempre tre furono i maggiori poeti italiani della metà del secolo testé trascorso: Ungaretti, Montale e Quasimodo. Da quando Dylan ha dato al mondo l’annuncio ke la poesia, senza musica, è “nuda” – decretando in tal modo la rinascita della poesia in forma d canzone e traghettando nella modernità una concezione vekkia come il mondo, tipica dei canti della tradizione popolare – il decennio ke ha visto la maturazione piena, nnké la diffusione maggiormente estesa, della poesia cantautorale in Italia è senz’altro quello dei Settanta. L’opera cantautorale veniva a liberare contenuti e forme frigide, edulcorate, della canzone commerciale, rompendo tabù, deregolando semantike, postulando rivoluzioni ecc.. Stando a un’opinione diffusa e condivisibile, il processo data dal sacrificio d Luigi Tenco (febbraio 1967). Ed ecco ke anke qui, x un inspiegabile ripetersi della storia, i migliori campioni della tendenza in atto nel decennio dei Settanta, a detta della vox populi a essi contemporanea (è un dato storicamente certo, oggettivo, ke nn può essere messo in forse da anamnesi tardive, né dai canoni interpretativi oggi d moda), sono ancora e sempre tre: De Andrè, Guccini e De Gregori.
E’ kiaro: tutto deriva da Dylan – autore con il quale tutti e tre i luminari hanno avuto a ke fare, ki un un modo ki in un altro. Ma nel ns paese, diversamente dall’America, la folksong si nutre d mille altre culture e sensibilità: il melodramma, la chansonne francaise, il canto regionale, la tradizione popolare ecc.. Questa fertile libertà espressiva, ke sovente esonda dalle sonorità canonike del rock (ciò ke fa storcere il naso agli snob e ai dogmatici dell’anglicismo) è in realtà una miniera d acume e d bellezza. Negli anni Settanta – nn mi stankerò mai d ripeterlo – il ragazzo ke ascoltava Guccini o Bennato o il grande Rino Gaetano era lo stesso ke ascoltava Jimi Hendrix o i Led Zeppelin o David Bowie o i Cream o i Genesis. Il discrimine nn era tra musica inglese o italiana, o tra musica elettrica e musica acustica, o (secondo canoni demenziali, oggi troppo spesso accolti supinamente) tra musica alta (nel senso dei watt) o dolce, o ancora tra roba ritmata e xcussiva o roba melodica – ma unicamente tra musica commerciale e musica nn commerciale – cioè: “arte”.
In uno dei miei ricordi più arcaici, vedo me stesso nel dicembre 1975, kitarra sulla coscia, piede destro poggiato su una delle freddissime pankine dei “giardinetti” d Albenga in Liguria, ke suono x i miei compagni scappati d casa. E rivedo Pierino, Antonella, Attila, Sandra, Mario, Mimmetto ke mi ascoltano rispettosamente mentre eseguo versioni gelide e ventose della “Locomotiva”, d “Pablo”, della “Ballata del Pinelli”, uniti a spezzoni d Dylan e d Neil Young (l’inglese, grazie soprattutto alle canzoni, era l’unico 8 ke avevo al Liceo). In quelle sere, prima d andare a stenderci nel sacco a pelo, dentro qualke cabina abbandonata in riva al mare, mi sentivo assai fiero d me: ero il musicista ufficiale dell’infreddolito gruppo degli hippie d Albenga.
A Roma venni la prima volta nel 1976, a 19 anni, senza kitarra ma col sacco a pelo, durante uno dei miei viaggi in autostop, e c ritornai a più riprese, facendo la spola con la Liguria. Nell’inverno 1976/77 lavorai x 5 mesi come venditore abusivo d musicassette d contrabbando alla stazione Termini. Dal mio marciapiede, dove tenevo il banketto e da dove sparavo a tutto volume, dallo stereo d automobile, i diski d Rino Gaetano, dei Deep Purple, d Simon&Garfunkel (mentre tutt’intorno i ragazzotti napoletani dei banki concorrenti mandavano solo roba partenopea: Sergio Bruni, Mario Merola ecc.), vedevo transitare da piazza Esedra in giù, lungo via Cavour, le manifestazioni oceanike del Movimento del ’77. Nel febbraio-marzo 1978 – ultimo anno d gloria del sogno hippie – passavo i pomeriggi a piazza Navona a farmi le canne e ad ascoltare, seduto x terra in mezzo a un cerkio d ragazzi colorati e rapiti, un giovane cantautore romano, ke veniva regolarmente a suonare le sue canzoni, in piedi – dakké era piccoletto – su una delle tante pankine della piazza. Aveva un anno solo più d me, ma possedeva una maturità artistica ed espressiva ke io, all’epoca, nn me la sognavo neppure: il grande Mario Salis – primo e unico vero cantautore d piazza Navona. Poki anni dopo, nel 1981, Mario si è sposato e si è stabilito in Francia, a Metz in Lorena, dove insegna musica nelle scuole e dove organizza annualmente il bellisssimo festival dei poeti “Teranova” (cui ho avuto il piacere gudurioso d partecipare nel 2005: esperienza indimenticabile). Così facendo, scomparendo all’improvviso dalla scena, Mario, volente o nolente, creò il mito intorno alla sua xsona. Le sue canzoni, specialmente quelle degli anni Settanta – “Sulla strada d Ginevra”, “La noia”, e la storica “Piazza Navona”, lucido scorcio generazionale sull’Italia dell’epoca – ma poi, col tempo, anke molte nuove – la bellissima “Loro come me”, e poi certe arie popolari come “Evviva gli emigranti” – sono state cantate in piazza x anni, e nn solo da noi, buskers professionisti, ma xfino, nel corso d tutti gli Ottanta, da tanti semplici ragazzi ke frequentavano la piazza con le kitarre a tracolla e ke avevano conosciuto Mario solo attraverso d noi e attraverso le sue canzoni. Nel 2006, trovandomi con una inaspettata disponibilità d denaro, ho finanziato il suo cd: “La nave del deserto”.
Parlando del mio rapporto con la canzone d’autore, occorre kiarire un altro tipo d rapporto a essa connesso: quello con la SIAE. Giunto in pianta stabile e definitiva a Roma nel 1981, con un bagaglio d esperienze molto più invasivo dei miei 24 anni, nutrivo un unico desiderio: diventare un cantautore. Quasi subito, facendomi il culo x strada, riuscii ad accumulare la somma x dare l’esame e iscrivermi alla Siae. Risale a quell’anno la mia prima canzone depositata. A tutt’oggi ne ho depositate più d 50 – ke cmq sono solo una minima parte della mia produzione. In tempi recenti, molto del mio sentimento d gratitudine verso la SIAE – ke x lunghi anni ho creduto potesse giustificarmi come “artista” – è venuto meno. Nell’inverno 2003/04 alla “Folkosteria-Vicolo de’ Musici” a Roma, l’incontro con gli artisti del “Fronte Popolare x la Musica Libera” – FPML – sto®icamente impegnati in una lotta contro il monopolio del diritto d’autore (un diritto ke è garantito da una legge dello Stato, e ke dunque, in quanto tale, nn può essere gestito monocraticamente da nessuna società privata), mi ha obbligato ad aprire gli okki sul problema e a meditarci su. Io credo, ke qualunque critica si voglia muovere a questa onusta e x molti versi eroica Società (ke pur sempre garantisce la regolarità dei pagamenti, la copertura malattia, il sostegno economico agli iscritti in difficoltà ecc.), finisce sempre x sostanziarsi in due gravi capi d’accusa: 1) la presenza d una casta, definibile dei “Soci privilegiati” (mi esimo dal fare nomi, certuni noti a tutti), la quale a ogni consuntivo si spartisce piuttosto ladrescamente gli enormi proventi d tutta la musica nn coperta dal diritto d’autore (o in quanto d autore ignoto, o in quanto morto da più d 50 anni) stampata o eseguita sul territorio nazionale, e 2) il diritto assurdamente conculcato a ogni singolo artista d concedere gratis la sua opera a ki gli pare, previa dikiarazione in tal senso. Io credo ke serva, ai ns gg, una grande e dura lotta del popolo dell’arte, capace d aprire una vertenza tesa sia all’abolizione della figura del “Socio privilegiato”, affinké anke i proventi della musica nn coperta dal diritto d’autore vengano redistribuiti equamente fra gli iscritti – cioè: fra tutti gli artisti veri, quelli ke producono e creano le opere dell’arte – e sia alla concessione della piena libertà d’uso gratuito dell’opera da parte dell’autore ke, nei casi da lui stesso indicati, lo rikieda esplicitamente – diritto sostanzialmente negato allo stato attuale. Si tratta d un programma kiaro, vastamente condivisibile, verosimilmente realizzabile: sarebbe già una cosa enorme, una Grande Riforma. In tutto ciò, l’esercito dei semplici iscritti, delle decine d migliaia d autori e compositori ke tutto avrebbero da guadagnare da una tale prospettiva – e nn già, anke questo va detto, dalla pura e semplice abolizione della Siae – costituirebbe già da solo una base sociale larghissima e solida su cui far leva ai fini del successo. A una rivendicazione d questo tipo, avente fermi e kiari questi 2 obbiettivi, mi dikiaro disponibile a dare il mio sostegno totale e incondizionato. Sia come sia, questa è la mia posizione attuale riguardo al problema Siae.
Da cantautore, ho iniziato la mia vita artistica a Roma, suonando la domenica alla rassegna “Folkstudio-Giovani” del grande vekkio Giancarlo Cesaroni, a via G.Sakki, a Trastevere. Era un luogo polveroso, aveva un odore ke nn dimentikerò mai. Palco aperto a tutti, dentro uno dei luoghi sacri della canzone folk italiana: uno sballo x un ragazzo d 24 anni, ke deve confrontarsi con un pubblico colto, e gli tremano le gambe. Anke xké tra il pubblico c’è gente ke t dà una pista, artisti sulla breccia, ke vendono migliaia d diski, e ke stanno lì, composti ed educati, ad aspettare ke tu finisca, x salirci loro, su quelle assi sbullonate, a fare le canonike tre canzoni – xké cmq è gente vera, ke gli piace esserci e darsi, in questo Tempio pagano del folk ruspante ke è il Folkstudio d Roma. E tu sei lì sopra, ke proponi senza rete un talking-blues in italiano, tua recente composizione limata la sera precedente, steso sul sacco a pelo nell’atrio affrescato del convento dei frati al Campidoglio – ma ki è quello lì, seduto all’angolo? Cristo, è De Gregori. E quell’altro, coi capelli alla mister Lamp (retaggi alanfordiani), appoggiato al muro a braccia conserte? È Giorgio Lo Cascio, quello d “Fiori kiari, fiori scuri”. E Mimmo Lo Casciulli dov’è? Lui, ke quando sale sul palco suona sempre un pezzo intitolato “Natalina” e lo presenta come “la canzone ke avrebbe fatto piangere Hitler”, e ke a me invece mi fa sorridere xké ho ancora fresco il ricordo della comune agricola in Liguria, dove avevamo una somarella ke si kiamava con quel nome. Almeno lui se n’è andato d là, al bar, a farsi un bikkiere, e so già ke quando scenderò dal palco e uscirò a mia volta a farmi il mio, lo troverò ke blatera insieme a Francis Kuipers sulle qualità magico-misterike della famosa “Acqua Kuipers”, vino rosso delizioso prodotto dalle vigne umbre d quest’altro grande minstrel-blues, uno dei poki veri ke l’Inghilterra abbia mai prodotto. Stefano Rosso stava sempre lì fisso, al palo, tutte le domenike, kitarra a tracolla in attesa del suo turno, e si capiva ke moriva dalla voglia d salire a suonare x raccontarci le sue storie disoneste: era un generoso. Io, d fronte a questi grandi, mi sono sempre sentito – e sono sempre effettivamente stato – inadeguato. Tuttora sono loro grato d esistere e/o d essere esistiti, e li riconosco, ora e sempre, come miei maestri.
Dalle scuderie del “Folkstudio-giovani”, nell’inverno 1982/83, sbocciò l’associazione “Folk’n’Roll”, ke durò un anno, tenendo due concerti importanti, entrambi sold out, al Teatro dei Satiri e al Teatro dell’Orologio a Roma. Folk’n’Roll produsse – con gli scarsi mezzi tecnici dell’epoca – una compilation su musicassetta d tutti gli aderenti in 500 copie dal titolo omologo: “Folk&Roll” (dicitura quanto mai geniale). A quei tempi nn era come adesso, coi cd fatti in casa, ke siamo all’invasione: i prodotti d questo tipo erano rari e assai rikiesti, e ai concerti se ne vendevano davvero un casino. C’erano sopra il sublime cantante-kitarrista Andrea Luciani e il giornalista musicale Leonardo Rossi – scriveva su “Fare musica” – ke cantavano brani loro in inglese; c’erano i Roisin Dubh, ke facevano tradizionali irlandesi con Marcello Bono alla ghironda, Francesco Santoro all’acustica e le sorelle Barbara e Aurora Barbatelli, rispettivamente al violino e all’arpa celtica; c’erano gli Acustica Medievale, ke qualke tempo dopo andarono in televisione, a “Doc”, da Renzo Arbore; e poi gli Albacustica, ke erano il primo ensemble del grande kitarrista Giovanni Palombo; e c’era il noto virtuoso del finger-picking Giorgio Mazzone, oltre a me, ke suonavo i brani miei con delle band improvvisate d colleghi d strada. Supervisore d tutto il progetto, vera anima d “Folk’n’Roll”, fu lo storico conduttore radiofonico e critico musicale Giancarlo Susanna, una delle xsone più belle e intelligenti ke mi sia mai capitato d incontrare. D mio, sull’arcaica compilation analogica d “Folk&Roll”, misi due brani: uno parlava dell’endemico senso d solitudine esistenziale del freak d allora (parlavo d me) ed era intitolato “Ho paura”; mentre il secondo – ke poi sarebbe diventato uno dei miei cavalli d battaglia negli anni successivi – si kiamava “La donna ke c vuole”, ed era dedicato alla tipica donna, come suol dirsi, “bella dentro”. Il brano – un rock’n’roll folkeggiante – l’ho poi ripensato nel 2005, ricalibrandolo intorno a una figura d donna davvero tipica d tale bellezza e rikkezza interiore: Margherita Hack. (X un certo tempo ho coltivato l’idea d un disco d brani miei ruotante intorno a quest’idea centrale, ke avrei senza meno intitolato “Hack”.)
Francesco De Gregori è stato x me – soprattutto negli anni Settanta in Liguria – un fratello maggiore mitico e ideale. Uno capace d dare forma alle sue ossessioni e d fartele sentire tue; uno d quelli ke, quando sei sulla strada senza sonno e senza un posto dove andare, t parla dalla piccola cassa d un mangianastri e t dice nell’orekkio cosa sta succedendo e quali sono i modi giusti x affrontare le cose, la vita, la società aliena. Con questo background, potete ben immaginare la mia gioia estasiata quando, x ben due volte, ho avuto l’onore d cantare insieme a lui su un palco. So ke gli devo molto xké Francesco è uno skivo e discreto, e nn gli piacciono granké queste cose. La prima volta fu il giorno d San Valentino del 2002, sul palketto del “Lettere-Caffè” d Trastevere: suonammo dei brani d Dylan e poi misi la mia armonica su un suo brano, “Battere e levare” (ho le registrazioni da qualke parte). Era successo questo. Ero da poco uscito dai postumi del mio secondo infarto (quello in cui sono morto x 3 mnt) e dalla convalescenza post-operatoria, e stavo organizzando una sorta d mega-ritorno sulle scene, x ringraziare tutti gli amici e i colleghi ke mi erano stati vicini. Una bella mattina (andavo a lavorare anke convalescente, xké c’era da mandare avanti la famiglia) ecco ke io e i miei colleghi busker d piazza Navona c vediamo arrivare Francesco con la sua tipica falcata principesca. Dopo i saluti, gli dissi della mia festa imminenete, e lui mi promise d venire. Mantenne la promessa, e mi fece strafelice. Poco più d un anno dopo, al “Classico” d via Libetta, l’incontro artistico si è ripetuto. Avevo già suonato col mio gruppo sul palco in occasione d un tributo all’amico Fabio Tassi, scomparso da poke settimane, e subito lui, Francesco – ke nn era in programma – mi si è era fatto sotto dicendo: “T va se saliamo a fare un brano insieme?”. Dissi d sì, ovviamente, e andammo su a fare “Tomorrow is a long time” d Dylan a due voci. Una tenerezza unica.
Dal novembre 2003 al giugno 2004 – un inverno interminabilmente lungo, denso, pieno d vita e d bellezza – ho cogestito un locale dove si faceva musica dal vivo, cui ho già fatto cenno: la “Folkosteria” d via Madonna dei Monti, vicino al Colosseo, a Roma. Sembrava un locale da bombaroli dell’Ottocento, tavolacci e panke d legno, frequentato da neo-scapigliati e da squattrinati d lungo corso, ma era sempre pieno, addirittura straboccante. In alto, sopra la cassa, proprio d fianco al bancone e all’incertissimo impianto stereo, troneggiava un tempietto al dio Guccini, con tanto d foto del Vate e relativi incensi e lumini. Fin dall’inaugurazione, io spinsi x dare un taglio simil-folkstudio alla programmazione del locale. Così, accanto alle serate covers e ai tributi, e insieme alla musica popolare del sud Italia (ke proprio in quel xriodo, e anke grazie al ns locale, andava x la maggiore), volli ke almeno due serate della settimana fossero dedicate alla canzone originale: il mercoledì e la domenica. Era una sfida in termini commerciali: i gruppi-cover erano i più seguiti, e il pubblico d Roma nn era – nn è neppure adesso – pronto x musike originali. Effettivamente, veniva meno gente del solito, ma era anke fisiologico, e ne fummo ricompensati dalla qualità dei complessi e dei solisti ke si esibivano: artisti spesso bravissimi, situazioni magike, creatività espressa senza mediazioni. Tanti i gruppi e i giovani interessanti, ke io mi sforzavo d auscultare con orekkio imparziale, senza pregiudizi. Ma fra tutti, quello ke mi impressionò d più e ke mi fece un’impressione enorme fin dal primo ascolto, furono i REIN. Già dall’impatto visivo, dal modo dinamico con cui si erano sistemati in 5 – con tanto d batteria ridotta e amplificatori – sul palketto striminzito del locale, erano incredibili a vedersi. E appena cominciarono a suonare, mi bastò una strofa x rendermi conto, distintamente, ke mai avevo avvertito prima tanta bellezza e tanta autorità – e tanta umanità, e tanta poesia ecc. – in altri 19enni. Oggi i Rein – Berny, Pozzio, Pilu, Luca e Petrella – benké ormai ensemble d levatura nazionale, continuano a considerarmi una sorta d fratello, e ne vado molto ma molto fiero.
L’unico vero disco ke sono riuscito a fare d roba mia è stato un’esperienza così ricca e indimenticabile ke dubito possa essere raggiunta da molti degli artisti ke d diski ne sfornano 1 all’anno. L’ho realizzato grazie proprio a Gianluca Bernardo detto Berny, cantante leader e poeta dei Rein, ke aveva nel cassetto dei brani troppo xsonali, intimisti e degregoriani, x poter passare indenni al vaglio censorio d Pierluigi Toni detto Pilu, bassista e mente pragmatica del gruppo. Così, insieme all’altro ns fratello e collega cantautore Giovanni Santese, c siamo kiusi x 10 gg nella cascina d un maneggio a Carpineto Romano, perla dei monti Lepini, e abbiamo registrato il disco. Appena giunti in loco, nn passò mezz’ora, ke già Berny aveva montato sotto i ns okki una vera e propria sala d registrazione. Era inizio marzo, e sui Lepini faceva freddo. Caminetto acceso, malloppone di erba locale, vino, querce ancora brulle alla finestra, e Gianluca con la pipa in bocca, come il filosofo Bertrand Russell, a padroneggiare la tecnologia. La mattina vrs le undici si cominciava con kitarre e basi ritmike, nel pomeriggio si continuava a lavorare al corpo armonico dei brani, mentre la sessione vocale – “Si canta!” – scivolava regolarmente alle due d notte, e avveniva sotto la sferza dei lazzi e dei motteggi degli amici (gli altri Rein, con le ragazze e la relativa crew, ke un giorno sì e l’altro pure si sparavano gli 80 km da Roma a Carpineto onde presenziare de visu alla creazione dell’opera, suonando parti x noi – Claudio Mancini detto Pozzio alla kitarra hackettiana, Andrea Melucci degli Omopatia alla voce plantiana ecc. – e aiutandoci in tutti i modi). Il disco venne fuori in quest’atmosfera d caciara legnosa e marijuanizzata. Kiamammo il disco “Ballate d fine inverno”. Oggi devo ammettere ke i brani peggiori sono i miei – quelli d Berny sono d una purezza disarmante, quelli d Giovanni semplicemente geniali. Ma c sono anke cose a cui tengo tantissimo, come “Fumo degli anni Settanta”, ke mi piace un casino, con il sinth d Gianluca in evidenza e con le xcussioni tribali d Pilu (lo sentivo xcuotere i bongos dalla cucina sottostante, mentre preparavo il riso integrale x la truppa). E mi aggrada anke “Quando io morirò”, ke, a dispetto del titolo, faceva ridere un sacco il figlioletto d otto anni d una mia ex fidanzata, quando udiva la frase ke dice: “Quando siamo sottoterra diventiamo tutti buoni / soprattutto xké nn siamo più qui a rompere i coglioni”. Ma la più bella resta sempre, ai miei okki, la vekkia “Roma Underground”, ke kiude il disco. E’ la prima canzone ke ho fatto al momento del mio trasferimento a Roma nell’81 (descrive la vita notturna nella Capitale degli anni ’80), e l’ho scritta insieme all’amico cantautore Edoardo Terzo (il ritornello – il vero pezzo forte del brano – è suo). Ma nella versione d “Ballate d fine inverno” questo pezzo acquista una visceralità ke io, da solo, nn sarei mai stato capace d infondergli. Tutte le mie frasi smozzicate, le mezze bestemmie e gli improperi, i commenti autolesivi et similia, mi sono stati letteralmente rubati mentre li dicevo, registrati e poi riconnessi nel corpo della canzone secondo una semiologia sublime dal genio apollineo del grande Berny. A ciò, si aggiunga il coro da veri goliardi nottambuli degli amici casinari: basterebbe già il romantico “nnamo donne ke m’envekkio!” (Gianlukino Gabrieli degli Astenia, ke altrove, nel disco, canta “Lei, le strade, la città”) x capire xké amo così tanto questa versione d “Roma underground”. Una curiosità: nel brano c sono 2 bestemmie: una finta e una vera. Quella finta è palese: è del Melucci, ke scoatta “Orcoddue, porco!”; mentre quella vera è d Berny stesso, ke sbadatamente fa cadere “live” l’attizzatoio d ferro del caminetto. Ma trattasi d bestemmia defilata, ke nn si coglie facilmente: offresi premio in natura a ki la scova x primo (speriamo ke sia femmina).
Se è vero ke nn ho mai fatto un disco d soli miei brani da cantautore – e nnostante ke ne abbia composti più d 100 – sono xò riuscito ad approfittare d qualke buona occasione x piazzare qualcosa d mio dentro ad alcune compilation dignitose e d tendenza, i cui realizzatori ringrazio dal profondo del cuore x l’occasione concessami. Così, cantata insieme alla bravissima Valentina Valeri, si può trovare “Vekki comunisti” – brano composto nel 1991, a dissoluzione dell’URSS e a Bolognina in corso – tra i solki del disco “La rossa primavera”, realizzato dal cantautore Enrico Capuano x conto della federazione regionale dei Comunisti Italiani del Lazio. Del pari, ho avuto la fortuna d poter piazzare ben 2 brani all’interno delle bellissime compilation “Liberalarte!2” e “Liberalarte!3”, prodotte dal Fronte Popolare x la Musica Libera. Al primo, ke è del 2005, ho dato “Cane morto”, brano ke si scaglia, denunciandone l’obsolescenza, contro il pensiero religioso (arrangiamenti e Stratocaster d Luigi Montagna). Mentre nel 2008, a “Liberalarte!3” (un disco doppio d 33 brani, venduto al costo politico d 10euri, cui hanno partecipato, con cose loro, gente come Freak Antoni, i the Gang, i Tete de Bois e tanti altri), sempre con la voce incredibile d Valentina e con la struggente slide-guitar del vekkio amico Stefano De Martini detto Iguana, leader dei Fleurs du Mal (artista d coerenza unica, votato x l’eternità al Verbo del rock-blues), ho donato “Le canne in finestra” – il primo brano uscitomi dopo l’estate della separazione da mia moglie, nel 2005 – e il cui titolo è tutto un programma.
Nell’ultimo decennio, una volta kiusa l’esperienza della Folkosteria d via Madonna dei Monti, mi sono inventato una rassegna settimanale al “Rasho-mon” d via degli Argonauti a Roma, dal titolo “La mia ora d libertà”, assieme a Gianluca Zammarelli detto Zamma, primo kitarrista d Ascanio Celestini, artista poliedrico e universale, interprete d blues, coverista dei Doors e d De Andrè, nnké studioso e conoscitore d innumerevoli arie popolari del sud Italia (x es. c’è una tecnica d canto in basilicata detta “canto alla cilentana”, d cui esistono solo 5 o 6 interpreti viventi: uno è lui). Si poteva far conto su una cerkia selezionata d amici e musicisti vari, x cui mettemmo in piedi decine d tributi alla musica cantautorale italiana – da Faber a Rino, passando x i 2 Franceski – e altrettanti tributi alla musica rock d’autore americana – Dylan, Neil Young, Springsteen ecc.. Il successo riscosso fu tale ke l’iniziativa andò avanti x due inverni d fila, da settembre a maggio, dal 2004 al 2006. Io presentavo le serate e le iniziavo: montavo sul palco, sparavo qualke cazzata, suonavo 2 pezzi e poi lasciavo il palco ai volontari (la mia fissa x il “Folkstudio-Giovani”, come si vede, è una coazione a ripetere, e nn è finita qui, come dirò tra poco). Ma poi, durante la serata, gli amici artisti mi rikiamavano sul palco x una doppia voce o x una skitarrata, e così io, in un modo o nell’altro, mi ritrovavo sempre on stage. Il biglietto era d soli 3 euri e a fine serata, una volta steccato l’incasso con Zamma, i soldi ke mi rimanevano bastavano a malapena a coprire il costo dei 100 sms ke inviavo settimanalmente a mie spese. Ma la possibilità d dare sfogo alle mie pulsioni narcisistike da primadonna davanti a 50 xsone x 2 invernate lunghe, intense e felici, fu una cosa impagabile. Fra le xsonalità del mondo musicale ke c gratificarono della loro presenza alla rassegna “d musica libera e intelligente” del Rasho-mon spicca il nome del caro Edoardo De Angelis, fondatore della “Schola Cantorum”, autore d quel “classico” della canzone romana ke è “Lella” – ke infinite volte avevo cantato a piazza Navona x i turisti – nnké coautore, con De Gregori, d uno dei brani cult della mia generazione hippie: “La casa d Hilde”. Anke lui mi kiamò sul palco a fargli la doppia voce, e gliene sono spropositatamente grato.
Storia del BOSIOAPERTO (è cronaca).
Appena il Rasho-mon nn fu più praticabile – lite tra proprietari – mi rimisi ad annusare l’aria del panorama underground romano allo scopo preciso d inventare un’altra situazione simil-Folkstudio. Una sera, in occasione d un concerto collettivo x De André in un locale d San Lorenzo, la “Locanda Atlantide” – d cui dirò più nel dettaglio nel prossimo capitoletto – incontrai un amico e collega cantautore, l’ottimo Stefano Rossi Crespi, vincitore a metà dei Novanta del “Premio Recanati”, ke avevo sempre stimato x la sua cifra compositiva, una dolcezza pungente, tra l’onirico e lo psikedelico, sorta d Neil Young filtrato da De Gregori. Gli parlai della mia voglia d mettere in piedi un pto d incontro x cantautori, poeti, musicisti acustici ecc., ma aperto a tutti. Sapevo ke Stefano mi poteva capire dakké lui stesso – molto più d me, ke tra famiglia e infarti, negli ultimi anni, ero in tutt’altre faccende affaccendato – aveva frequentato il Folkstudio-Giovani, ed era buon amico d Cesaroni. La sera stessa imbarcammo nell’impresa un altro bravo compositore, ank’egli pluridecorato (un Recanati e 2 premi De André), il funambolico Giampiero Mazzone. Si mise la voce in giro ke si era alla ricerca d uno spazio, e subito una incredibile sirena abboccò all’amo. Era nientemeno ke la grande Sara Modigliani, la migliore interprete della canzone romana vivente, già voce del Canzoniere del Lazio nei Settanta e ora organizzatrice delle attività del Circolo Gianni Bosio a Roma – istituzione preziosa, ke si occupa della conservazione e della trasmissione delle forme dell’arte e della cultura popolare. Così s’incominciò noi 4, con la mailing list del Circolo a disposizione, ma anke facendo girare la voce tra gli amici e i colleghi cantautori. Nella sede storica d via Sant’Ambrogio 4, al Ghetto (II piano), a partire dal marzo 2007, ogni ultima domenica del mese si ripete il miracolo: il “BOSIOAPERTO” accade. Cantautori e interpreti giovani e meno giovani si danno appuntamento, si guardano negli okki, si scambiano impressioni e info, si alternano sul palco, si auscultano reciprocamente. E si è creato un movimento, ragazzi, nel vero senso della parola! E ke movimento! Proprio poki gg fa Stefano Rossi Crespi mi faceva notare ke, secondo lui – ke lo ha frequentato a lungo – il livello qualitativo delle proposte del vekkio Folkstudio-Giovani, almeno negli ultimi anni, era nettamente inferiore a quello espresso dagli artisti e dai compositori ke animano il Bosioaxto oggi. Tra i tanti nomi ke potrei fare (e ke possono essere consultati sui relativi myspace), mi limito a citare quello del “fuoriclasse” Gabriele Ortenzi, quello d Simone Avincola, 22enne incredibilmente bravo, quello dei magici “Verso Est” d Andrea Belli e Franco Pietropaoli, e infine quello d Andrea Buoninfante, cantautore corrosivo ke io kiamo lo Stregatto.
Grazie a questo appuntamento mensile, si sono addirittura formati dei gruppi nuovi, come i METONIMIE, nati dal mio incontro con la poetessa-cantautrice Annamaria Ciampaglia, ke già suonava le sue canzoni sulfuree e post-punk insieme al kitarrista Federico Scalas – progetto d un’originalità assoluta, sorta d folk-metal (dialettica degli opposti), condito da testi in italiano d delirante bellezza, ke Annamaria canta con la sua voce forte e sfacciata.
Dal 2009, nel xiodo estivo – giugno-agosto – il Bosioaxto tiene i suoi happening aperti a tutti con frequenza settimanale sul lungotevere d ponte Cestio quale iniziativa dell’Estate Romana (cultura al popolo!).
Storia dei LES COCQUES FOU (è cronaca)
Una nuova importante collaborazione ke mi vede partecipe, ank’essa sorta nel contesto degli appuntamenti musicali del Bosioaxto, è quella con l’incredibile poetessa cantautrice Lalla Bertolini. Abbiamo cominciato a montare le ns canzoni originali a due voci e due kitarre. Poco tempo dopo, si è aggiunta la bravissima cantante xcussionista Danila Massimi e oggi siamo, appunto, un gruppo trivocale: una makkina sonora piena d bellezza e d pathos. Il nome – escogitato dal genio d Lalla – deriva dal fatto ke tutti e 3 siamo nati nell’anno cinese del Gallo (e benké le due ragazze abbiano 12 anni meno d me).
I brani ke suoniamo sono tutti scritti da Lalla e da me, e riarrangiati con la suxvisione illuminata d Danila. Li abbiamo già suonati in diversi locali d Roma, nn ultimo il concerto del Bosioaxto del luglio 2010 sul Lungotevere, e – sebbene appena nati – abbiamo fatto anke un mini-tour in Liguria. Bella storia.
Storia dei REGINA OLSEN (è cronaca).
Anke la storia d questo gruppo, benké più recente, presenta un’analogia con quella degli Old Bench e cioè: la sua nascita è legata al nome d un locale e a quello d un gestore. La prendo un po’ alla lontana. Nei primi Novanta, quando ero busker fisso a via della Maddalena, dietro Montecitorio, passava d lì un ragazzo, pressappoco 25enne, Pasquale Carolei. Sostava davanti a me x diversi minuti, in silenzio, assorto ad ascoltarmi. Dieci anni dopo, una sera d’inverno, prendo il tram x san Lorenzo e mi butto dentro un locale a via dei Lucani ke nn avevo mai sentito nominare, la LOCANDA ATLANTIDE, xké c’è un concerto d uno dei cantautori-mito della mia generazione, uno dei poki ke nn si sono mai venduti – parlo del professor Claudio Lolli – e anke, soprattutto, xké ad aprirgli il concerto c’è il mio amico Davide Trebbi, allora giovanissimo. Il locale è enorme, sgarrupato come piace a me, coi tavoli spaiati e i divani vissuti; la sala del concerto è separata dalla sala bar, x cui è possibile anke kiakkierare da una parte, mentre dall’altra parte si abbatte il muro d suono. Vado a procurarmi da bere e, da dietro il bancone, vedo 2 okki accigliati ke mi fissano e sento una vociona ke mi chiama x nome. Era proprio lui, Pasquale, ten years after, ora anima e boss – Zeus – del locale! Passa ancora qualke anno e – siamo nel gennaio 2007 – Pasquale recupera il mio numero e mi fa kiamare x un tributo collettivo – devo fare 3 pezzi – a Fabrizio De André (è la sera storica in cui, essendoci, tra gli altri, anke Stefano Rossi Crespi e Giampiero Mazzone, lanciai la mia idea d ciò ke, già due mesi dopo, sarebbe diventato il “Bosioaxto”). Da quel primo omaggio a Faber sul palco generoso della Locanda Atlantide c sono salito decine d volte, da solo o coi miei gruppi. Ho nel cuore questo localone, con tutti i ragazzi ke c lavorano, a cominciare dagli organizzatori, la cara Antonella, l’incantevole Nicoletta, il buon Svevo, x nn dire dei fonici – Antonio Nastasi, tastierista genius dei “Nu Indaco”, Marcolino De Tommasi detto Gnagno, kitarrista-compositore d musica elettronica – x finire con i simpaticissimi banconisti e i rudi boy guard. Il bello della Locanda – d questo ke è uno dei poki veri locali alternativi della Capitale, dove puoi sentire cose introvabili altrove, dal raggamuffin’ albanese al nu-metal, dalla tamurriata pedevesuviana alle stamburate senegalesi – è ke quando sali sul palco, 8 volte su 10, t trovi con 2/300 xsone sveglie e partecipi lì sotto: una sensazione inebriante.
Alla Locanda sono nati i REGINA OLSEN – nel senso ke proprio in funzione della Locanda sono riuscito a riunire un gruppo d artisti ke mi coadiuvava da anni a vario titolo: Felice “Jesus” Zakkeo, il plettro d dio; Valentina Valeri, la voce della prateria; Esmeralda Fersini, la meravigliosa cantante folk; Franco Pietropaoli, il fauno skitarrante; Marco Di Nicolantonio, l’Ercole dei tamburi – e con la collaborazione frequente d Pozzio, kitarra hackettiana dei Rein. Io, nei ReginaO, canto, suono l’acustica e l’armonica a bocca, come sempre.
X quanto mi riguarda, i ReginaO sono un progetto ke si realizza, un compito ke mi imposi tanto tempo fa e ke posso dire d aver portato a termine: quello d un gruppo capace d rielaborare, spesso ripensare e quindi riproporre live, le cose più arcaike e seminali (spesso dimenticate, ma ke x me ebbero un valore fondante, all’epoca), composte dai 3 grandi cantautori degli anni Settanta – Fabrizio De André, Francesco Guccini e Francesco De Gregori (ke poi c sono anke i Lo Cascio, i Bennato, i Lolli, i Branduardi, i Graziani, i Bertoli ecc.: tutti eroi della mia generazione) – a scopo d trasmissione e d tutela vera, nn museale, d un patrimonio vivente ke riskia d restare skiacciato sotto il peso plumbeo del nuovo clima culturale imperante nel ns paese.
Oggi i ReginaO sono una realtà bellissima. Dopo due inverni d concerti alla Locanda, siamo stati kiamati a Monterotondo (RM) in occasione dell’annuale “Framma Day”, una festa organizzata dai ragazzi del posto in onore del mai dimenticato Angelo Frammartino, giovane volontario della forza d pace ucciso qualke anno fa x sbaglio in Israele da un ragazzo palestinese. Sempre x una causa umanitaria (la raccolta d fondi x la ricerca sul cancro al seno femminile), abbiamo tenuto un concerto all’ex casinò d Anzio, in un salone ottocentesco aggettante sul mare, con gli arredi veneziani e le lunghe sfilze d lampadari a goccia ke pareva d stare al Grand Hotel d Rimini nell’”Amarcord” d Fellini. E abbiamo partecipato a feste d strada, suonato in locali grandi e piccoli, a feste dell’Unità ecc..
Storia d FRANCO FOSCA&la BUSKER BAND (cronaca)
Molto semplicemente, la Busker Band sono i ReginaO quando si suonano brani miei. Se devo fare le mie canzoni oggi (al d fuori dei Les Cocques Fou), voglio ke il mio gruppo si kiami così.
Mio padre, vekkio libertino donnaiolo e vinaiolo d etnia toscana, volle battezzarmi Franco, sebbene un santo corrispondente a questo nome nn sia mai esistito. Nel 2009 un gruppo d combat folk d Priverno (FR), i LEGITTIMO BRIGANTAGGIO, mi hanno dedicato, e inserita nel loro disco – a me xsonalmente! ragazzi ke sballo! – una canzone: “Canzone x Franco”, appunto. Autore materiale – cioè, compositore – d questo bello skerzetto è colui ke io kiamo “l’Einstein del violino elettrico” (nel senso dylaniano d “Desolation row”), uno ke suona il violino anke con il bottle neck e c tira fuori d tutto, dalla Om della galassia al vagito del neonato: sto parlando del mio caro fratellino, nnké magico folletto, Andrea Ruggero. La canzone – bellissima, una potenza! – cantata dal leader dei Brigantaggio, il bravo Gaetano Lestingi, e col ritornello dove – inaspettatamente – subentra la voce dell’amico più caro ke ho tra i colleghi “poeticantanti” d Roma, il miracoloso Gianluca Bernardo dei Rein: come vi aspettate ke possa essermi sentito io, all’ascolto d questo dono inaspettato, al cospetto d cotanta bellezza da me inconsciamente evocata e dai miei migliori amici gratuitamente – x puro spirito creativo, x doverosa vis estetica – elargita alla mia misera e ridicola xsona? Auguro a tutte/i voi, amori e sorelline, amici e nemici, ke un giorno qualcuno davvero bravo vi dediki una canzone come questa: è una delle soddisfazioni della vita ke nn si possono comprare coi soldi.
Appendice: LA CANZONE POPOLARE
Semplicisticamente: la categoria universale è quella d “musica popolare”. Ma quando al concetto d “musica” si sostituisce quello d “canzone”, ecco ke occorre fare dei distinguo. La canzone popolare è “in lingua” – diversamente dalla canzone folk, ke è in dialetto (sono tassonomie mie, buone a capirci, a prescindere se alcuno le condivida o no). Come tale, la produzione popolare si è sviluppata soprattutto nelle zone del volgare, cioè in buona parte del centro Italia, Toscana in testa. Ma il bisogno d comporre in italiano risponde anke a esigenze ke travalicano le istanze regionali. Quando i temi della composizione esondano il mero ambito della vita quotidiana – l’amore, i drammi familiari o esistenziali ecc. – investendo interessi comuni a vaste classi e settori della società italiana (il grande incremento della produzione d canzoni popolari è avvenuto sull’onda ascendente dello spirito unitario, mono-linguistico, ke dura fino al secondo dopoguerra e, in gran parte, a tutt’oggi), ecco ke la canzone in lingua si postula naturalmente quale veicolo d trasmissione d ideologia; ecco ke l’italiano diventa essenziale x creare sodalizio ed empatia anke con genti d lingua diversa: se canto in italiano ho più possibilità d farmi capire dal contadino lucano o siciliano ke se cantassi in dialetto modenese o genovese. A questo crocevia sorgono le Grandi Tematike della musica popolare: i canti dell’emigrazione e del lavoro, i canti politici, socialisti, anarkici, antifascisti, della Resistenza ecc.. Tutto questo patrimonio d cose preziose è stato, ed è, tutelato e promosso dall’Istituto E.De Martino, ke ha sede a Sesto Fiorentino (FI) in via degli Scardassieri (in sinergia con diverse altre istituzioni locali, come il Circolo G.Bosio d cui ho detto). Negli anni ’70 questo Istituto ha dato un contribuito fondamentale alla cultura italiana, diffondendo le opere della canzone popolare attraverso l’etiketta discografica “Diski del Sole”, oltre ke con innumerevoli pubblicazioni, convegni e gruppi d studio.
Ma io, tutte queste cose, le ho conosciute dopo.
Io, negli anni ’70, quello ke riuscivo a vedere dal mio angolo d visuale hippie e stradaiolo era ke, più ke il patrimonio della tradizione, era viva e attiva una famigliola ben compatta e agguerrita d artisti ke scrivevano canzoni politike ex novo. E questi “cantautori politici” (tolleravano il sostantivo solo a condizione ke fosse seguito dall’aggettivo, proprio x distinguersi dai cantautori “normali”) erano gente veramente brava, ke fu capace d comporre brani entrati d diritto nel patrimonio tradizionale al pari dei classici dell’Ottocento e del Novecento: e dico “Contessa” d Pietrangeli, “Cara moglie” d Della Mea, “Morti d Reggio Emilia” d Amodei e tante altre.
Ma allora! – direte voi – se erano così bravi, xké nn ce ne hai parlato prima, e c hai rotto gli zebedei fino a mo’ con Guccini, De Gregori e De André? Si può escludere ke il motivo sia quello banalmente sociologico x cui, diversamente dai compositori oscuri e spesso anonimi del canto popolare antico, nel caso del cantautorato politico dei ’70 c si trovava in presenza d artisti socialmente stabili, d estrazione talvolta medio-borghese (da ragazzo nn avevo gli strumenti analitici x una critica d questo genere, sebbene Guccini, nel “Cronike epafanike”, gliela muova tutta intera: “Gente d città”, li kiama). La ragione vera, ke tuttora continua a far pendere il mio favore dalla parte della produzione dei cantautori “normali” (si fa x dire), rispetto a quella più ostentatamente politica, è ke se, come io credo, l’obbiettivo strategico è scardinare i pilastri ideologici e pregiudiziali dell’ideologia borghese nn solo dalle taske, ma anke e soprattutto dalle teste della gente comune, ke d tale ideologia è imbevuta (in vista della famosa “egemonia culturale”), il canto politico nn è d nessuna utilità. Nn si fa breccia nel muro del pregiudizio con parole come “Caro padrone, domani t sparo”, o come “Vogliamo vedervi finir sottoterra”, o come “Morti d Reggio Emilia uscite dalla fossa” – e nn lo dico certo x via del tono truculento delle immagini (se fossi vissuto al tempo dei bolsceviki sarei stato un impalatore d kulaki ank’io), ma lo dico xké questo msg semplicemente nn arriva. Il linguaggio usato nn è poetico: è sloganistico. Serve esclusivamente inter nos, lo canti x ki già la pensa come te, a fini autocelebrativi o identitari, x darti forza e coraggio nelle lotte e alle manifestazioni (e in questa funzione è certo utile e meritevole, oltre ke piacevole). Ma è kiaro ke, nel cervello d un uomo ammaestrato dal pensiero reazionario, immagini come quelle nn inducono alcuna risonanza critica utile. X poter spostare in modo duraturo – e nn solo x moda passeggera – le singole coscienze a vantaggio della ns causa, occorre ke ogni singola coscienza sia in grado d elaborare le acquisizioni da sé, nel cerkio autonomo della sua privatissima volizione, sul piano esistenziale della “scelta”. Il ns mestiere d artisti è allora quello d fornire materiale atto a tale scopo, roba potenzialmente capace d accendere, in cervelli disturbati, la scintilla magica del pensiero critico. La conquista dell’egemonia culturale fra la gente media (fenomeno ke negli anni ’70 si è verificato nn a caso) è miracolo ke solo l’arte genuina, la vera poesia-canzone, può realizzare (e ke nn sempre c riesca, è certo sintomo dell’estrema gravosità del problema). Versi come “Dai diamanti nn nasce niente / dal letame nascono i fiori”, o come “Ma io nn c sto più / e i pazzi siete voi”, o come “Siamo qualcosa ke nn resta / frasi vuote nella testa”, sono lampi d senso ke offrono più d un solo, univoco spunto d riflessione ed elaborazione, e ke anzi danno corso a reciprocità, a interazioni proprie dell’esperienza vitale d kiunque – privato e politico, individuale e sociale, psicologico e fisiologico ecc.. Questo è il vero motivo – sino a oggi da me appena trasentito e solo ora, infine, teoricamente spiegato – x cui ho sempre fatto il tifo x i cantautori veri (tutt’altro ke “normali”).
Ma ecco, odo rimontare la vs protesta. Mi state dicendo: hai appena ammesso ke dei cantautori politici – e quindi, x estensione, della canzone popolare – nn te ne è mai fregato una breccola, però t sei ben guardato dal soprassedere e dal tacere al riguardo; anzi, nn t sei fatto scrupolo d fornircene una stroncatura gratuita! Ma anke qui, Amici miei, devo confessare ke, se oggi posso parlare del mio rapporto con la canzone popolare, un motivo c’è, ed è ke, un giorno, ho conosciuto ALFREDO BANDELLI.
Fu alla festa Nazionale del Partito della Rifondazione Comunista d Marina d Carrara, anno 1992. La scena: ora tarda, reparto ristorante ormai kiuso essendo passata la mezzanotte, semicerkio d compagni, una trentina, e in mezzo a loro, sbracato su una pancaccia, con un eskimo bisunto e l’espressione da gatto mammone, lui. Ai suoi piedi, stesa in terra, faceva la sua discreta figura una chitarra sbrindellata, con 2 o 3 corde rotte. Negli anni Settanta (e benké io, allora, nn lo avessi mai sentito nominare) era stato, x antonomasia, il Cantautore d Lotta Continua. Aveva scritto pezzi memorabili come “La violenza” e come “La ballata della Fiat”, canzoni ke facevano paura – intendo ai padroni. Il ghigno del Gigante Proletario ke si erge sulla barricata e abbaia il suo anatema in faccia al ricco pusillanime e tremante: questo era Bandelli. Un operaio vero, uno ke nn aveva mai depositato i pezzi in Siae e ke firmava le sue canzoni con la dicitura: “Parole e musica del proletariato”.
Quella sera era stato il cantautore Enrico Capuano a portarmi lì. Appena mi vide, il gigante proletario ebbe un mezzo sorriso, nn x me ma x la kitarra ke portavo a tracolla. “Me la presti?” fece con aria innocente, coadiuvato in tale rikiesta dal vociare dei 30 compagni presenti, orfani d un’esibizione interrotta dalle rotture fondamentali del sol e del la. Io, vedendo la fine ke aveva fatto la kitarra stesa a terra, stavo quasi x defilarmi all’inglese ma Capuano mi fermò: “Dagliela: è Alfredo Bandelli”. Gliela diedi. Me la restituì alle 2 d notte in uno stato pietoso. Contro tutte le mie aspettative nn aveva rotto nessuna corda ma, in compenso, si era rotto lui le dita. Come molti kitarristi popolari, anke lui suonava battendo le corde col nodo osseo ke sporge tra la falangina e la falangetta. Le corde della mia folk, però, diversamente dalla sua classica, nn erano d budello, erano d metallo. Dopo un’oretta d standard comunisti, partigiani, anarkici ecc. (Alfredo li conosceva tutti), il dito gli cominciò a sanguinare, sprizzando allegri fiotti d sangue sulla superficie della cassa armonica. Ancora oggi, x quanto pulita e ripulita, a cercare sulla mia El Torres con la lente d’ingrandimento, sono sicuro ke nn sarebbe difficile rinvenire qualke gocciolina, qualke molecola, del sangue d Alfredo.
Dire ke diventammo amici è una cazzata: nn avevamo bisogno d diventare alcunké, dal momento ke già eravamo “compagni”, ovverosia il più sincero e indissolubile legame ke può unire due “animali sociali”. E x d più eravamo artisti, altra catena inossidabile, altro cordone viscerale. Venne a Roma 2 volte a suonare, x concerti nelle sedi romane del partito, ke gli organizzavamo Capuano e io. E x 2 volte andai io a Pisa, la sua città – con Manola e poi da solo. Alla festa del PRC d Pisa del 1993 c impose sul palco, durante il suo set, a Manola e a me: dovevamo accompagnarlo con le doppie voci su dei brani x noi – ke si veniva dal rock – del tutto sconosciuti, dopo una cosiddetta prova d 10 mnt, poco prima del concerto: una cosa assurda. Ma bellissima. Bandelli morì improvvisamente nel dicembre 1993.
Nel 1994, il 25 aprile, al Centro d Iniziativa Popolare Alessandrino, nel wild east end romano, tre nn più giovanissimi cantautori d nome Enrico Lombardelli, Maurizio Carlini e Franco Fosca – io me medesimo – suonavano le loro canzoni a una serata congiuntamente intitolata alla Liberazione e alla memoria d Bandelli. Nel pubblico c sono parekki amici d Alfredo, e noi si suona le ns canzoni originali – si è pur sempre dei cantautori – ma poi, come succede in questi casi, si trascende e, viste le ricorrenze, si comincia a improvvisare sul tema Resistenza, cum magno gaudio degli astanti: si fanno “Bella ciao”, “Fiskia il vento”, “Bandiera rossa” e anke i pezzi d Alfredo – ke nel frattempo mi ero imparato: “Partono gli emigranti” e soprattutto “La mia barba”, ke è stata x anni, ed è tuttora (sebbene ormai “la mia barba” abbia ben più d “40 anni”) uno dei pezzi forti del mio repertorio. Sulla strada del ritorno, stretti fra i sedili del Panda d Enrico, sull’onda dell’entusiasmo x la serata eccezionale, si decide d fondare un gruppo acustico-vocale e d kiamarci Pueblo Unido. Qui comincia davvero il mio rapporto con la musica popolare.
Nella prima metà degli anni 90 il canto popolare, e più specificamente politico, versa in un coma profondo. I fasti dei ’70 sono roba sepolta. Si sorte dal decennio della restaurazione craxiana, ke fece strame d ogni forma culturale progressista in sede d main stream, mentre il fantasma ridanciano d Berluska iniziava con prepotenza a stagliarsi all’orizzonte: in questo quadro da tregenda, gli antiki custodi della musica popolare in Italia – Istituto Ernesto De Martino & Co. – versavano in uno stato d prostrazione esistenziale nn meno ke organizzativa (Mary Bandelli, la compagna d Alfredo, una volta mi ha raccontato ke nella vekkia sede dell’Istituto – prima ke ne fosse data la presidenza a Ivan Della Mea – i compagni si erano dimenticati d pagare la bolletta dell’Enel e gli avevano staccato la luce). In questo panorama amorfo, in questo quadro d grande confusione sotto il cielo, su questo terreno apparentemente vergine, la proposta “Pueblo Unido” cadeva, come si dice, a fagiolo. Si andava incontro a una rikiesta diffusa d identità e d partecipazione da parte delle xsone colte d tutta Italia (l’avventura d Rifondazione era fresca e vitale). Si fecero 2 musicassette (lo dico x i posteri: fino alla metà dei ’90 del Novecento le cassette musicali erano ancora in uso) con sopra i classici della canzone politica, e le si vendevano, a decine, x posta, tramite manchette pubblicitarie su Liberazione e sul Manifesto, e ai concerti, dato ke si suonava dappetutto – si fecero una miriade d concerti, toccando i 4 angoli del paese nel senso letterale del termine: si fece fisicamente il quadrilatero Aosta, Trieste (2 vlt), Lecce e Reggio Calabria (3 vlt).
Nel 1996 c fu prospettato un lavoro importante: fare un cd d canti popolari x la rivista “Avvenimenti”, da distribuire nelle edicole italiane insieme al giornale. E benké tutto il lavoro andasse fatto – da parte dei Pueblo Unido – a titolo gratuito, c parve una sorta d consacrazione. Avremmo potuto dare un ns ulteriore contributo, dopo le musicassette, alla tradizione del canto popolare in Italia e, sull’onda del successo, rimettere mano al discorso della canzone d’autore, ke c stava particolarmente a cuore – alle cose ns, insomma.
Lavorammo 6 mesi (“No, dico: 6 mesi!”), 3 d gestazione più 3 d sala, in condizioni proibitive, contando solo sulle ns povere forze e su quelle dei poki amici musicisti disposti a lavorare aggratis, privi del sostegno morale e materiale tanto dei nostri committenti quanto dei ns produttori. Ns committente era il direttore della rivista “Avvenimenti” e grande intellettuale d sinistra Claudio Fracassi, detto “Fracassi da Velletri” dai suoi redattori. Questo tipo mi faceva fare anticamere interminabili se andavo a presentargli il progetto; dalla sala d’attesa lo sentivo blaterare x ore in russo, x praticare la lingua, in diretta telefonica con Mosca (e quanto le bollette d quelle telefonate abbiano influito sul bilancio e sul fallimento successivo d “Avvenimenti” dio solo lo sa). Era uno ke in diretta televisiva t ricopriva d elogi ma poi, quando uscivi dagli studi, saliva sulla makkina d rappresentanza e se ne andava senza dirti neanke vaffanculo. Quanto alla produzione, venivamo convocati regolarmente in sala d registrazione, c/o la “Helikonia” d via dell’Acquedotto Alessandrino, alle 11 d mattina, ma l’accesso alla sala c veniva concesso alle 4 del pomeriggio, xké prima d quell’ora tecnici e discografici avevano sempre qualche altro lavoro da svolgere, un artista pagante o un jingle pubblicitario o una sigla per TeleMontecarlo: uno stillicidio quotidiano, andato avanti x mesi, ke c frustrava e c esacerbava.
Fin dall’inizio si era convenuto – gruppo, committente e produzione – d realizzare una raccolta d ben 3 cd con i brani popolari ke avevano accompagnato la storia patria, una vera “Storia d’Italia attraverso le Canzoni Popolari”, vista attraverso gli okki delle classi oppresse. Era un’idea mia. Così come mie furono le fatike d gestione e realizzazione del progetto storico-filologico. Lavorai da autodidatta, sottraendo ore al lavoro – al busking – alla famiglia, al sonno, improvvisandomi teorico della canzone popolare, e affrontando questo compito, come dice W.Benjamin nella “Piccola Storia della Fotografia”, nn da studioso, e senza il consiglio dei teorici, ma sulla base dell’osservazione immediata, xké “esiste un’empiria delicata, ke si identifica intimamente con l’oggetto e ke così diventa vera e propria teoria”. Ai responsabili d “Avvenimenti” proposi la pubblicazione d un libretto, insieme ai cd, contenente tutte quante le mie osservazioni scritte, ma la proposta nn passò. X cui, dalle pagine centrali, ke la rivista decise d dedicare alla presentazione teorica d accompagno ai diski, scomparvero parti importanti, come il fraterno ringraziamento, insieme al pubblico debito d riconoscenza, verso l’Istituto Ernesto De Martino; o come la parte sulle scelte stilistiko-strumentali del gruppo. Nel primo caso, i compagni del De Martino si incazzarono come biscie, e giustamente. E nel secondo caso, dove io specificavo nettamente trattarsi d un lavoro svolto nn già da studiosi del canto popolare ma da semplici cantautori, c piovvero addosso le critike x la scelta degli strumenti, giudicati nn adatti al canto popolare (a dire il vero, c fu un discreto baccano sul fatto ke nn si usarono zampogne e tamorre, e fummo xfino accusati d aver fatto arrangiamenti da Sanremo, ma nessuno dei ferratissimi critici si accorse ke in tutti i 3 diski nn c’era un solo suono sintetico, era tutto acustico, tutto vero: il xcussionista aveva suonato anke il sedile della batteria, mentre dove serviva la campana – e nnostante le 1000 bellissime scampanate campionate della tastiera dello studio ke il fonico mi proponeva con innocente inconsapevolezza – io imposi l’uso d una vera campanella da gregge, ed è piuttosto avventuroso identificare la musica da Sanremo col suono dello sgabello della batteria o col gregge).
I 3 cd della “Storia d’Italia attraverso le Canzoni Popolari” uscirono a gennaio 1997, x 3 settimane, e vendettero in tutto 120mila copie (nn so se mi spiego).
Dopo i 6 mesi d passione, a lavoro concluso e mentre i cd si vendevano come il pane, Enrico, Maurizio e io c si sedette in poltrona in attesa dei giusti riconoscimenti x il lavoro svolto con tanta passione e senza xcepire un centesimo (io, in particolare, ero al settimo cielo, perké nel frattempo stavo registrando con Manola e con gli OLD BENCH il disco d ballads tradizionali americane, ke sarebbe uscito 2 settimane dopo, sempre con “Avvenimenti”). C si alzava solo x andare a comprare i giornali ke recensivano l’opera. E infatti, insieme all’uscita del primo cd – quello azzurro, coi canti preunitari, del Risorgimento e quelli del lavoro – uscì anke un bell’articolone a firma Marco Romani su Liberazione. La settimana successiva, col secondo – quello verde, coi canti anarkici, dell’emigrazione, della Grande Guerra e del Socialismo – uscì sull’Unità un pezzo entusiastico della brava Alba Solaro (“Storia d’Italia in 43 canzoni”) e noi, ingenui, già si sentiva odore d big time. Mancava solo il sigillo finale, quello del quotidiano “comunista” x eccellenza – il Manifesto – ke c avrebbe senz’altro assurti a eroi del canto popolare. Ma l’articolo del Manifesto tardava a uscire. O meglio, uscì dopo la pubblicazione del terzo cd, quello rosso, coi canti dell’antifascismo e quelli della Liberazione. I diski uscivano d mercoledì e l’articolo in questione uscì la domenica successiva, quando già noi si cominciava a disperare sull’interesse del “quotidiano comunista” nei confronti della ns opera.
Era successo questo. In fase d realizzazione del terzo cd, dopo i tanti mesi d fatica, uno d noi, Maurizio Carlini – la mente “armonica” del gruppo – diede forfait e si kiamò sostanzialmente fuori. Così l’incombenza della registrazione del disco rosso ricadde interamente sulle spalle d Enrico e mie – ma soprattutto mie. (In effetti il terzo disco è quello ke, tecnicamente, risente più d tutti della mia cultura folk-rock, e certo l’assenza d Maurizio si avverte un casino, ma fu anke il cd ke, in assoluto, ha venduto d più nella storia discografica della rivista “Avvenimenti”: 50mila copie.) Ma io, d mio, oltre alle registrazioni, avevo sulle spalle anke il peso, nn indifferente, della stesura delle note critico-filologike ai brani. Nn lo dico a mia discolpa ma solo x riportare dei fatti: sotto l’enorme pressione della pubblicazione imminente sia del cd sia delle note d accompagno, a causa della fretta, commisi alcune leggerezze nella stesura d queste ultime (d cui darò conto tra poco). Così, fu solo dopo l’uscita del terzo cd ke i critici, già assai eccitati e animosi x l’innaturale miracolo delle vendite astronomike dei diski d un trio d volgari parvenu, si trovarono in mano un materiale teorico inesatto – poco, in verità, ma bastante a giustificare la loro indignata reazione. L’articolo del Manifesto nn fu una stroncatura: fu una coltellata nelle ns carni vive.
L’articolo – a firma dello storico, filologo, nnké docente universitario, nnké luminare del movimento operaio, nnké stimato e ineffabile intellettuale comunista professor Cesare Bermani – iniziava definendoci “Un gruppo ke sembra ignorare tutto o quasi tutto delle vicende del canto sociale in Italia”. E aveva ragione. Io – parlo x me, nn avendo titoli x parlare a nome degli altri due componenti del gruppo – purtroppo nn avevo l’età di Bermani né tantomeno il suo bagaglio d esperienza acquisita sul campo in tanti anni d studi e d ricerke, dei quali gli sono sinceramente grato. Io sono un somaro: in seconda Liceo, già bocciato, sono scappato d casa e ho interrotto irrimediabilmente gli studi. Io, certi canti, li sentivo cantare dalla nonna Filumena (pistoiese della montagna) quand’ero bambino. Io ho abitato i primi 12 anni d vita a Cuneo, in un appartamento al terzo piano senza ascensore (c ho perso la mamma in quella casa) il cui balcone del salotto aggettava sulla grande balconata da dove il 26 luglio del 1943, il giorno successivo alla caduta d Mussolini a opera del gran consiglio del fascismo (certi nomi nn riesco proprio a scriverli in maiuscolo), Duccio Galimberti si era affacciato ad arringare il popolo, riunito sulla piazza immensa ke oggi porta il suo nome, dando inizio alla Resistenza nel basso Piemonte. Bambino d 10 anni, transitavo davanti al muro della kiesetta d Borgo San Dalmazzo – dove mio padre aveva l’officina – davanti al quale i nazifascisti passavano x le armi i partigiani e, seduto sulla mia biciclettina, kiedevo al babbo perké mai c’erano tutti quei buki nel muro. A 12 anni mi trasferii con lui in Liguria, ad Arnasco, paesino dell’entroterra d Albenga, nell’angolo collinare tra le valli del Neva e dell’Arroscia (due fiumi incantevoli ke a tutt’oggi nessuno rispetta e accudisce), a poki kilometri dall’inizio d quello ke gli storici odierni definiscono “Il sentiero Fiskia il vento”, la pista montana dove l’eroico comandante Felice Cascione – detto “u Megu”: un Che Guevara d casa ns – compose la lirica dell’immortale canto della Resistenza. Ricordo le facce dei capi partigiani dei paesi vicini, il comandante Cimitero e gli altri, quando venivano il 25 aprile con il loro esercito d compagni dai fazzoletti rossi a desinare al ristorante del padre – comunistissimo – del mio amiketto Alfredino. Verso i 17 anni, crescendo e spostando sempre d più il baricentro dei miei interessi dalla campagna alla città – in soldoni: cominciando a frequentare gli hippies d Albenga – c trovammo, io e i miei nuovi amici, ad affrontare un problema nn indifferente in tempi in cui essere pescati nn dico con uno spinello in bocca ma anke solo con un filtro spento a poki passi d distanza, comportava la galera certa e immediata: reperire spazi utili, zone franke ove praticare il nostro rito pacifico e leggiadro fuori dalla portata visiva delle forze dell’ordine. All’uopo si era scelto un vekkio fortino vicino al mare, situato alla foce del Centa (è il fiume d Albenga, il più corto d’Europa, soli 4 km, e nasce dalla confluenza dei succitati Arroscia e Neva). Insomma: c si andava a fare le canne nel sacrario intestato al massacro d 44 partigiani da parte del famigerato “boia d Garlenda”, nel 1944. Si accendeva il cannone e si fumava in quel silenzio surreale, col rumore del mare poco distante, in quei grigi mattini dell’inverno 1974/75, e si faceva l’ultimo tiro in onore d quelle vite sconosciute ke si erano sacrificate x la ns libertà. Poi si depositava il filtro spento tra i vasi d fiori davanti alla lapide, si dava un ultimo sguardo ai nomi dei 44 martiri incisi nel marmo (3 dei quali anonimi), si intonava all’unisono un “Bambulé” a pugno kiuso e c si disperdeva x le vie della cittadina, baldi e fieri. Aveva proprio ragione Bermani: ke cazzo d titoli può avere uno stronzo come me x parlare a nome del canto sociale?
Nel corso degli anni, ho letto e riletto l’articolo del Manifesto ke stroncò la carriera ai Pueblo Unido. Ho spesso immaginato il professore, dopo l’uscita dei primi 2 diski, arrovellarsi sulla stesura d un pezzo credibile dal pto d vista stroncatorio, seriamente frustrato x il poco materiale cui appigliarsi. E l’ho visto, come se fosse stato qui davanti, balzare d gioia sulla seggiola all’uscita del terzo, quando finalmente i suoi pregiudizi potevano trovare agganci credibili su cui imbastire una vera bocciatura. Sia quel ke sia, con l’articolo d Bermani occorre farci i conti, difendendo le ns buone ragioni e nel contempo confessando le ns – e le mie – colpe oggettive.
Il pezzo – dopo il suddetto incipit sull’ignoranza totale dei Pueblo Unido – conteneva i seguenti capi d accusa.
A) L’autore c accusava d nn aver citato l’Istituto De Martino da nessuna parte. Come ho già detto, però, l’omissis nn dipese da noi ma dalle scelte editoriali della rivista, ke fece saltare il ns omaggio e il ns debito culturale – ke era netto, inequivocabile e discretamente argomentato – nei rispetti dell’Istituto.
B) Stando a Bermani, avevamo compiuto la ricerca dei brani nelle sedi sbagliate: la Discoteca d Stato e le collezioni private. Secondo lui avremmo dovuto svolgerla c/o l’arkivio storico dell’Istituto. E’ kiaro ke saremmo stati ben felici d farlo, ma nessuno d noi, lavorando a budget zero, aveva la possibilità pratica d mollare tutto, lavoro e famiglia, e trasferirsi a Sesto Fiorentino, neppure x un xiodo breve.
C) Io avevo scritto ke la ns ricerca era stata condotta in base a supporti eterogenei, su diski dalle copertine spesso mancanti o “ciancicate”. Al professore – ke nn deve aver assimilato Gadda fino in fondo – l’idiotismo d derivazione romanesca nn andò giù. Fece della facile ironia sulla cattiva gestione delle Istituzioni dello Stato e sollevò dei dubbi sul fatto ke collezioni private potessero presentare diski con le copertine “ciancicate”. Ora, io credo ke Bermani nn abbia mai visitato la Discoteca d Stato a palazzo Mattei a Roma, ke se no avrebbe visto coi suoi okki i molti diski, antiki e/o rari, colà conservati in custodie standard d semplice cartoncino bianco (in questo senso “mancanti”); né può immaginare la mole d vinili nudi, reperiti kissà dove, fattaci xvenire da amici e colleghi interessati attivamente al ns lavoro, a titolo gratuito e nell’intento d fornirci idee e suggerimenti.
D) Il ns Enrico Lombardelli aveva scritto, in un breve box editoriale, ke oggigiorno la ricerca “sul campo” (tipica metodologia dell’etnologo d professione, con tanto d magnetofono a tracolla, ke va nei luoghi della cultura popolare a rubare testimonianze vive) nn sarebbe più fattibile “x ovvi motivi”. Bermani s’incazzò come una biscia, replicando ke ciò nn è assolutamente vero, e ke lui stesso, nnostante l’età, ancora la praticava con risultati soddisfacenti. Il ke, probabilmente, dà ragione al professore.
E) Criticando la bibliografia, Bermani puntò il dito sulla scelta dei testi, in quanto privi della trascrittura musicale, e avvalorando coltamente il tutto con una citazione d Ernesto De Martino. Ma anke qui il professore prende una cantonata: se t dico ke ho le registrazioni significa ke le trascrizioni mi sono superflue.
F) E veniamo alle critike sulle mie “note storico-filologike” d accompagno – parola brutta x dire commento o presentazione – ai brani. E’ ben vero ke il ns censore scrive ke, volendo, avrebbe potuto stilare “un elenco del telefono” dei miei errori e delle mie imprecisioni, ma poi ne cita solo 4. Ora, nella scelta degli esempi, qualsiasi xsona sana d mente opta x quelli più evidenti e pregnanti, nn avendo senso il contrario. E allora vediamoli, questi errori tremendi. Il primo riguarda un avverbio d modo (un “probabilmente”) x lui eccessivo ma ke, in realtà, nn cambiava affatto il significato del concetto espresso. Il secondo è anke più scontato: Bermani si attacca a un kiaro – ancorké grave – errore d stampa (la lettera “c” saltata nel nome del comandante Cascione).
I restanti 2 sono gli unici veri sbagli, e anke questi, come il precedente, riguardavano il terzo cd, quello coi canti del socialismo, dell’antifascismo e della Resistenza. Uno concerneva l’autore del brano partigiano “Festa grande d’Aprile”. Come ho detto, nella realizzazione del disco rosso, Maurizio aveva allentato il suo impegno e la sua frequenza nelle sedute d registrazione. Così io, mentre x la stesura delle note d presentazione dei primi 2 cd avevo avuto a disposizione diversi mesi d tempo (l’intera fase d gestazione del progetto), nel buttare giù quelle del terzo dovetti lavorare in gran fretta, pressato dalla scadenza dell’uscita imminente e con il maggior peso della realizzazione musicale sulle mie spalle. In tale situazione, delegai a Lombardelli la ricerca c/o la Siae sugli autori dei brani del disco numero 3. Se nn ke Enrico, anziké rikiedere il nome dell’autore della canzone secondo il suo titolo effettivo, ke è “Festa grande d’Aprile”, fece distrattamente digitare all’impiegato Siae la frase ke kiude il ritornello e ke dice “E’ festa ad Aprile”. La dicitura ovviamente nn risultava da nessuna parte, e io ne dedussi trattarsi d canzone anonima. Bermani mi massacrò. Aggiungo solo, ke se avessi saputo ke gli autori del brano erano Liberovici e Antonicelli nn lo avrei giammai messo nell’opera, x un motivo semplicissimo: perké “Avvenimenti” c aveva imposto (ripeto: imposto) d condurre ricerca e cernita solo ed esclusivamente nel bacino della produzione anonima – con autore ignoto o morto da più d 50 anni – allo scopo d pagare poco d Siae e d risparmiare sul costo del prodotto (e così ho risposto anke a un’altra critica d Bermani (G), incazzatissimo x l’assenza d brani più recenti).
L’ultimo errore – il peggiore – riguarda l’“Internazionale”, ed è tutto mio. Scrissi il nome del solo Degeyter, autore della parte musicale, trascurando quello del Pottier, ke ne aveva composto il testo originale, in francese, durante la Comune d Parigi. Malauguratamente, pressato dai tempi stretti della consegna, mi ero fidato della piccola Zanikelli, senza controllare le notizie ke essa mi dava anke sulla ben più precisa UTET – ke mi avrebbe fornito le adeguate correzioni, come solo più tardi ebbi modo d verificare. Mea culpa: accetto il crucifige e così sia. Resta il fatto ke, su un’opera monumentale d 43 canzoni, 2 soli errori veri nn sono poi una brutta media x gente che “sembra ignorare tutto o quasi tutto del canto sociale in Italia”.
Subito dopo l’articolo, mi recai gambe in spalla dal buon Fracassi con un bigliettino con sopra le doverose rettifike, nel quale ascrivevo il merito delle stesse al professor Bermani (finanke ringraziandolo x la cortese discrezione con cui ce le aveva trasmesse), ma il buon Fracassi nn volle pubblicare la rettifica. Desidero ke si sappia, ke se qualke cittadino italiano d quei 50mila ke acquistarono illo tempore il cd rosso dei Pueblo Unido, dovesse tuttora nutrire la convinzione ke “Festa grande d’Aprile” è canto d autore ignoto, o ke – peggio – “L’Internazionale” è stata composta dal solo Degeyter, la colpa nn è mia: io, il mio dovere deontologico, lo feci.
Fosse finito tutto qui, poco male. La polemica era appena divampata. Lombardelli rispose all’articolo con una lettera al Manifesto. Il De Martino rispose a sua volta e noi rimandammo in stampa su Liberazione un ulteriore articolo a ns discolpa. Finké scese in campo Ivan Della Mea con un pezzo infelice già dal titolo (“Oltre agli okki c fanno male anke gli orekki”), e a quel pto optammo x il silenzio – nn solo x il rispetto verso il compagno, l’artista, lo studioso, ma anke perké la diatriba aveva assunto toni così livorosi e contenuti così scolastici ke nn potevano interessare a nessuno, eccezion fatta x i poki addetti ai lavori dispersi sul territorio nazionale.
Intanto il De Martino aveva messo in campo la sua artiglieria pesante contro il fortilizio sparuto e indifeso dei Pueblo Unido. In poki gg giunsero ad “Avvenimenti” una dozzina d lettere d protesta da ogni parte d’Italia, contro il misfatto politico-filologico-storico-estetico xpetrato dal famigerato terzetto. Uno scrisse, con verve eufonica da Comintern, ke facevamo “opera d mistificazione”. Giovanna Marini, da vera signora, disse ke c si trovava in presenza d un “genocidio culturale”. La lettera ke mi fece più male fu quella ke ingiuriava my great sister Manola Colangeli, una folksinger vera, artista storica del Teatro dell’Opera d Roma, ke aveva nobilitato il ns lavoro accettando d cantare x noi alcuni brani memorabili, depositaria d una vocalità ke la stragrande maggioranza delle voci femminili facenti riferimento al De Martino nn se la sogna neppure. Anke in tale caso, il buon Fracassi da Velletri decise d nn pubblicare tali lettere d protesta (forse x par condicio nei rispetti delle mie rettifike, e senza rendersi conto dello scarto epistemologico fra le due cose). Ma era possibile ke un simile materiale, così oggettivamente scientifico e prezioso, potesse restare inutilizzato? Nn fosse mai! Dopo un anno, i capi del De Martino decisero d kiudere i conti col “caso” Pueblo Unido, dedicando nientepopodimeno ke un numero intero del “Bollettino” ufficiale dell’Istituto alla ns lapidazione pubblica, con la pubblicazione d quella dozzina d lettere eterodirette nnké delle varie carinerie scambiateci a mezzo stampa. Va detto ke, nnostante le pretese d esaustività sbandierate dai redattori, brillano x la loro assenza dalle pagine del Bollettino in questione almeno un paio d pezzi significativi, sui quali nn mi dilungo x nn tediare, ma d cui posso fornire in qualsiasi momento prove testuali e documentarie.
E Bermani? Nel frattempo, x questo moderno Catone, la lotta ai Publo Unido divenne un’ossessione. I suoi appelli pubblici alla ns dissoluzione furono la sua “delenda Cartago”. Increduli e allibiti, leggevamo sui giornali i resoconti dei suoi interventi a convegni e dibattiti sulle culture subalterne, ke lui sistematicamente kiudeva con: “ma soprattutto il canto sociale nn va mai interpretato alla maniera rozza e banale dei Pueblo Unido”. Io, x ripicca, mi sono in seguito vendicato ogni volta ke ho eseguito in pubblico “L’Avvelenata”. La famosa strofa dedicata ai “Colleghi cantautori”, in cui si nomina Bertoncelli, quella ke Guccini reputa obsoleta (“ki cazzo se lo ricorda, Bertoncelli?”), invitando ciascuno a metterci il nome ke gli pare, io l’ho cantata x anni, e tuttora la canto, sempre e dovunque, nella seguente versione da me ripensata:
“Ke cosa posso dirvi? Andate! Fate!
“Tanto c saran sempre i puritani,
“I musici falliti, i dotti nani, i Cesare Bermani
“A sparare cazzate.”
Ah, Gigante Proletario! Se c fossi stato tu! Ho sempre nutrito la convinzione ke se Alfredo Bandelli fosse stato vivo all’epoca della diatriba, tutto sarebbe rimasto nei limiti della collaborazione civile e fattiva fra gente dedita a una stessa causa. In effetti, le unike xsone ke ebbero il coraggio d esprimere la loro solidarietà ai Pueblo Unido furono i famigliari d Alfredo, la moglie Mary, le figlie Selene e Evelin. Nn uno dei 100 colleghi musicisti d ns conoscenza, neppure quelli più politicamente e umanamente vicini a noi, c espresse mai la sua solidarietà, né a parole né tantomeno a mezzo stampa. Dalla mia postazione solipsistica, prigioniero nel mio quadro desolato, mi scoprivo spesso a pensare: ma c sarà pure uno o più d’uno, d quanti gravitano nell’orbita del De Martino, il quale, anke condividendo le ragioni dei suoi sodali, si ponga però il problema della sproporzione e dell’assurdità d un’ostilità così virulenta, e certo degna d miglior causa, profusa a danno d 3 piccoli artisti ke, con tutti i loro limiti, stanno facendo il loro lavoro onestamente. A tutt’oggi, nn mi sono dato una risposta. Ma voglio credere ke qualke compagno d questo tipo, uno ke abbia deciso da sé, d sua sponte, d nn esporsi con parole o scritti, e d rigettare in cuor suo la mutria del crociato, c sia stato – c deve essere stato. A questo compagno ignoto e ipotetico io dico: Grazie! E dico grazie anke al solo – l’unico – compagno “noto” il quale, mentre già i Pueblo Unido erano all’Indice, accettò d fare da ospite d’onore a uno dei ns ultimi concerti in un teatro d San Saba a Roma (preclaro esempio d come c si può comportare con dignità nella vita: tenendo le parti del De Martino, come lui stesso c aveva fatto intendere, ma nel contempo senza considerare la controparte alla guisa d appestati) – e allora scrivo su questa pagina il nome d Paolo Pietrangeli.
Nn so quanto tutta questa faccenda, col suo strascico d polemike terribili offensive ingiuste, spesso ingiuriose, con tutta la tristezza e il dolore ke provai e ke feci provare alla famiglia, abbia influito sulla mia predisposizione all’infarto: d certo nn l’hanno dilazionata, dato ke solo 3 anni più tardi ne ho avuti 2. Una cazzata, ke però dà la misura delle angosce patite: da quella faccenda ne uscii con i primi capelli bianki. Ancora adesso, ogni volta ke ripenso a quei fatti, e xfino ora ke ne scrivo, sento in gola il fiele amaro e insopportabile d quei gg lontani.
E nnostante tutto, resto tuttora convinto ke la “Storia d’Italia attraverso le Canzoni Popolari” dei Pueblo Unido (1997) fu un lavoro buono, speciale, innovativo. C’è un sacco d bellezza in quei solki, a patto d auscultarli con orekkio puro, senza pregiudizi. Si ponga orekkio a “Lavoro è molto poco”, dal terzo cd, quello rosso, con la voce meravigliosa d Manola e il riff semplice e spiazzante della kitarra d Enrico; o si ascolti dal secondo cd, quello verde, la famosa “Gorizia”, col contrabbasso d Eugenio De Sena e le invenzioni armonike ke Maurizio aveva proposto in agosto a Salerno, dopo un concerto; o ancora nel terzo cd la mia “Sùn vegnìuu da Seravale”, dove compio il sacrilegio d musicare una filastrocca genovese come se fosse un testo d Neil Young. Ma in ciascuno dei 43 brani della raccolta, nel loro minimalismo così come nella loro freskezza, è possibile rintracciare un segno, un’idea d fondo, e tante piccole geniali sublimazioni.
Purtroppo però i Pueblo Unido erano finiti. Una band esiste se lavora: una band ke nn lavora nn esiste. Da gruppo da 40/50 serate ke eravamo, l’anno succedente al diluvio ne facemmo 3 o 4.
Ora, se almeno il sacrificio dei Pueblo Unido fosse servito a qualcosa! A pensar male, si potrebbe teorizzare la più ovvia delle illazioni, e cioè ke il De Martino, con il suo parco innumerevole e – lo dico sinceramente – ammirevole d artisti, abbia voluto usare la guerra ai Pueblo Unido come trampolino d lancio x se stesso. In effetti i ns diski avevano venduto in media 40mila copie, e un simile bacino d utenza poteva far gola a tanti. La canzone popolare in lingua, una volta ristabilita sui suoi binari giusti e reinterpretata dai suoi interpreti accreditati, avrebbe potuto tornare in auge, dopo il lungo sonno degli Ottanta e oltre. Ma questo nn è accaduto. E la cosa mi fa incazzare parekkio, perké è la dimostrazione ke il sacrificio dei Pueblo Unido è stato vano.
Ma insisto. Io ho gestito un locale a Roma nell’inverno 2003/04 dove si faceva anke musica folk del meridione, la “Folkosteria” d Madonna dei Monti, e posseggo una certa esperienza al riguardo. La moda travolgente della musica etnica, dialettale, in Italia, data i suoi inizi grossomodo dall’anno in cui uscirono, appunto, i 3 cd dei Pueblo Unido, il 1997. Da allora è stata tutta un’ascesa gloriosa e bella, ke ha cosparso il paese d iniziative folk – si pensi alla “Notte della Taranta” – tendenza ke ha avuto il suo apogeo verso il 2005 ma ke tuttora xsiste a vari livelli. E mi kiedo: è successo qualcosa d comparabile nel campo della canzone popolare in lingua? La risposta – oggettiva, scientifica – è: no! O nn sarà ke, nell’ambito della musica folk (cioè dialettale), ciascun soggetto musicale – vuoi x radicamento socio-linguistico, vuoi x storia familiare, vuoi x scelta stilistica, vuoi x estro xsonale – ha avuto la possibilità oggettiva d fare il cazzo ke gli pareva senza censori e/o depositari del Sacro Verbo ke lo obbligassero a fare come dicevano loro? Noi – e qui rispondo all’ultima, assurda, critica (H) con cui il prof Bermani kiude il suo ormai famoso articolo, dove rinfaccia ai Pueblo Unido d ignorare gli onusti dibattiti e le annose polemike anni ’70 sui modi filologicamente corretti d eseguire il canto sociale – noi, dico, questa possibilità, questa libertà espressiva ke hanno avuto i mille artisti folk degli anni seguenti, nn l’abbiamo avuta: siamo stati massacrati prima. Spesso mi domando: ma se io fossi stato un ragazzo dotato d talento musicale, infatuato del canto popolare, all’epoca dei 3 cd dei Pueblo Unido, come mi sarei sentito, cosa avrei imparato nel vedere un Istituto storico scagliarsi contro un singolo gruppo musicale? (Mike Tyson ke si accanisce su Dario Vergassola; il corpo dei marines ke muove guerra ai vigili urbani d San Marino). D certo, cari compagni, mi sarei tenuto ben alla larga da un materiale così scottante, spaventato e finanke nauseato dalla vs campagna denigratoria, così cattiva e tignosa, e mi sarei subito buttato sul reaggamuffin’. E allora, se il destino recente del canto popolare, nel ns assurdo Belpaese nn è paragonabile, neanke minimamente, a quello ricolmo d allori e d successi del canto folk, forse, cari e stimati compagni del De Martino, la colpa è soprattutto vs.
Un’altra domanda ke mi pongo sempre è: kissà se oggi, dopo 12 anni, le cose, x la canzone popolare in lingua, sono cambiate. E se sì, in ke senso?
Cmq, coi Pueblo Unido si fece la televisione 3 volte. La prima su RAITRE, a “Notte Cultura” (un anno dopo, mi rividi nella registrazione ke cantavo “Italia bella mostrati gentile”: nn mi piacqui, e fu lì ke giurai a me stesso ke la televisione nn l’avrei fatta più). La seconda a UNO Mattina (dove cantammo “La presa d Roma”, un brano sulla Breccia d Porta Pia, circondati da sets d ragazze seminude distese su lettighe insieme a quarti d maiale arrosto e a foglie d’insalata, mentre al loro passaggio Maurizio kiosava con l’immortale dicitura d Pietro Gori: “Umàn carname!”). E la terza a HELP, su TMC, da Red Ronnie (ke all’epoca nn aveva ancora comprato la kitarra d Jimi Hendrix e ke c kiese in diretta, come fuori programma, la ns versione assurda e xversa d “Mamma mia dammi 100 lire”). A conti fatti, mi sono divertito.
UN RIMPIANTO
Pago del mio strumming da marciapiede e pigro mentalmente come sono, nn ho mai imparato a suonare x davvero.
Io sono un cantante, uno ke gli piace dire qualcosa quando suona. A me piacciono i testi – in italiano o in iglese nn importa, purké significativi, purké poetici. Negli anni Settanta era diffusa questa credenza (oggi ribaltata a 180 gradi): ke un testo idiota rende idiota anke la musica più elaborata, ma un testo intelligente rende intelligente anke la musica più semplice. E’ x questo ke si impazziva x le ballate d 3 accordi d Bob Dylan: perké quei 3 accordi parlavano contro i padroni della guerra, contro il razzismo, in favore della fratellanza umana. E lo facevano – in ciò sta la vera genialità d un compositore – in base a codici d purezza melodica, con venature d dolcezza acida, capaci d penetrare e d diffondersi nelle teste e sulle bokke d gente comune senza mai scadere nella melassa canzonettara. All’uopo, il suono della kitarra folk e la dimensione acustica bastavano e avanzavano a mettere in funzione la makkina significante (“This machine kills fascists” c’era scritto sulla folk-guitar d Woody Guthrie).
Ciò ke ho appena presentato come una cosa “buona”, x un altro verso è in realtà un gran male. Tutta una serie d generi, ke amo e ke seguo con devota partecipazione, mi sono irrimediabilmente preclusi. E dico il blues coi suoi solisti strazianti, il jazz con le sue armonizzazioni sbilenke e altri generi ancora. Ma lo dico soprattutto x un altro genere, con il quale sono cresciuto e ke adoro così tanto ke nessuna moda musicale potrà mai strapparmelo dalla mente e dal cuore.
Il Rock Sinfonico.
Il primo concerto ke vidi, a Genova nel 1972, a 15 anni, furono i Gentle Giant.
Immagino ke ora farò incazzare assai gli amici supporters della scolastica punk-wave (ovverosia i tantissimi fratelli cui tocca sorbirsi spesso e volentieri d questi miei discorsi ogni volta ke c si cimenta dialetticamente sulle reciproke radici culturali), ma devo dirlo: in vita mia ho assistito a centinaia d concerti d ogni tipo e natura, compresi il punk, il metal, il noise e gli altri generi ke passano oggi x espressioni massime d forza impattante e d carica primigenia nell’ambito del rock. Ma io posso assicurarvi, cari Amici, ke niente e nessuno è mai riuscito a ripropormi e a ritrasmettermi la massa d energia, potenza, determinazione, baldanza, fierezza etc. del mitico gruppo dei fratelli Shulmann. Quelli nn erano musicisti, nn erano gente d spettacolo: erano totem animati, montagne rocciose semoventi. Sprigionavano la stessa carica primitiva del punk ma avevano questo d più: ke era gente ke suonava da dio. Sono certo ke il medesimo sbigottimento ke ebbi io quel giorno lontano, deve averlo provato qualsiasi ragazzo ke abbia avuto la fortuna d vedere dal vivo i Jethro Tull o gli Yes o i Van Der Graaf Generator o i Genesis intorno al 1972.
Era successo questo. Si usciva dal decennio dei Sessanta, ke nel Regno Unito era stato il decennio del beat, con i gruppi della “swinging London” (Troggs, Animals, Kinks, i Them d Van Morrison, i Pink Floyd d Sid Barrett ecc.), cui facevano da contraltare negli USA il rithm’n‘blues e il soul d Otis Redding e d Marvin Gaye (con la mitica etiketta Motown), e il surf-rock dei Beach Boys. In America intanto c’era il trionfo del folk-rock, e c’erano Dylan, i Birds, i CCR e la Woodstock generation (e già si travedeva l’evoluzione ke il genere avrebbe avuto nei Settanta, con Neil Young, David Crosby, Joni Mitchell e la West Coast). Su entrambi i lati dell’Atlantico c’era poi il rock-blues (Hendrix, la Joplin, i Doors, i Canned Heat d là; e i Cream, gli Yardbirds, John Mayall e il British Blues d qua).
A questo crocevia, una maledizione colpì la sponda americana del rock universale: morirono tutti. A un tratto, sparirono le 3 grandi “J”: Janis (Joplin), Jimi (Hendrix) e Jim (Morrison). Morirono in circostanze tragike anke Otis Redding (incidente aereo) e Marvin Gaye (ammazzato dal padre), ke rappresentavano l’anima sana e bella del rithm’n’blues (un genere ke dopo d loro ha avuto gravi cadute d stile).
L’Europa allora – l’Inghilterra certo, ma anke l’Italia nn fu da meno – assunse su d sé il peso d transitare il rock verso un’epoca nuova, e lo fece in un modo inaspettato e sorprendente. Sempre, in precedenza, il rock si era coniugato con diversi tipi d linguaggio. Alla fine dei Cinquanta il rock’n’roll aveva detto tutto quel ke aveva da dire, e sarebbe diventato lettera morta, un ciclo kiuso come il mambo o la rumba o altri generi del Novecento, se nn fosse venuto Dylan e la folk music a contagiarlo, trasformando la sua tipica forma ritmica in un veicolo x i contenuti lirici della poesia e della denuncia sociale. Poi, come si è visto, il rock si è mescolato al suo nobile predecessore, il blues, poi addirittura con il jazz (Miles Davis, John McLaughlin). Pare proprio ke il Big Tree del rock agisca da spugna assorbente, sukkiando energie e idee a generi diversi. In quel momento storico, arrivò dal Vekkio Continente la sola contaminazione possibile in quelle condizioni oggettive, l’unico apporto originale ke la culla della civiltà occidentale poteva inoculare nel tronco del Big Tree secondo la sua storia e le sue tradizioni: la musica classica.
Nel giro d poki anni, skiere d musicisti, molti dei quali venivano dal conservatorio, ma dotati d uno spirito libero e anti-accademico, decisero ke volevano comporre secondo certi canoni sinfonici, ma usando bassi, batterie e kitarre elettrike – oltre alle tastiere, con pianoforti e organi in primo piano, strumenti tipici della cultura classica, ke venivano con tutto il loro potenziale espressivo a invadere x la prima volta un genere da cui nn erano mai state valorizzate secondo le loro reali potenzialità. Così videro la luce le cosiddette “Suite”, brani incredibilmente geniali e potenti, lunghi a volte l’intera facciata d un long playng, incentrati su un tema principale e su tante imprevedibili variazioni d ritmo, d armonia, d melodia, d intensità e dinamica, sempre conditi da testi sognanti ed evocativi d ineguagliabile bellezza. Il rock sinfonico fu il tentativo d una generazione generosa e creativa d assurgere il rock, questa forma leggera, questa moda in fondo giovanilistica, ad arte classica universale.
Io capisco ke la gioventù odierna, la quale ne ha viste d tutti i colori – dal punk al metal, all’hip hop al drum’n’bass, dal noise alla techno – possa far fatica a pensare a un tempo in cui i loro coetanei ascoltavano (oltre a tutti i generi di cui ho parlato in questo mio racconto, perché come ho già detto non c’erano dogmi e settarismi: tutto era talmente nuovo e bello che non se ne voleva perdere nulla) anche un genere musicale così difficile e raffinato, straziante e paranoico, bizzarro e tormentoso come il rock sinfonico. Ma posso testimoniare ke x almeno 6/7 anni, i lunghissimi anni ke vanno dal 1969 al 1976, durante i quali la cultura rock giovanile espresse i suoi gruppi più creativi, producendo una selva sterminata d capolavori immortali, e mentre si cercava una strada x fare la rivoluzione, la musica ke si ascoltava era questa.
E’ vero: era una branca culturale del movimento hippie ma era anke il canto del cigno d tale cultura: a partire dalla seconda metà dei Settanta – ma in modo definitivo solo dal 1980 in poi, quando a cambiare nn fu solo la musica ma il mondo intero, con l’avvento al potere del triumvirato reazionario Reagan, Thatcher, Woijtila – arrivò paradossalmente anke il punk, e l’intero panorama culturale si rovesciò nel suo negativo fotografico. Se è lecito rifarsi a una dottrina estetica degli anni Settanta, ma stavolta quelli dell’800 – e parlo della Scapigliatura milanese – e cioè la sinestesia fra note musicali e colori, si potrebbe dire ke il rock sinfonico era una musica bianca, nel senso ke conteneva in sé i colori dell’arcobaleno e li esprimeva tutti, nessuno escluso. In ciò era filiazione della Woodstock Generation, implosa con la scomparsa delle 3 “J”. Mentre invece il punk ha ricondotto tutto a un solo colore: il nero. Come dice Neil Young: “Once you’re gone, you can’t come back, when you’re out of the blue and into the black”. Dal nero, insomma, nn si torna indietro. Oggi le rondelle e le lancette dell’orologio della Storia sono sistemate secondo una struttura difforme da quella ke ha partorito il rock sinfonico e gli altri generi a me cari. Ciò nn toglie, ke d un fenomeno musicale d quell’importanza e d quella dirompenza si deve cmq fornire una lettura oggettiva, deontologicamente onesta, storicamente corretta.
Purtroppo, invece, oggi è invalsa una neo-scolastica la quale, per quanto modaiola e fighettina, come ogni scolastica è sempre qualcosa d medioevale, ke tende a rimuove l’esistenza storica stessa d quella grande stagione, passandola bellamente sotto silenzio, con ciò negando la sua legittima appartenenza al nobile Big Tree del rock universale.
Ho ascoltato con le mie orekkie un dj radiofonico votato alle capriole logike, inventare d sana pianta, nel corso d una trasmissione, una sorprendente “Storia del Rock” ke prendeva le mosse da Elvis, passava a volo d’uccello sul beat inglese (senza neanke nominare gli Animals), citava en passant la “Summer of Love” del 1967 (xké proprio tutto nn si può tacere, è vero, ma poi su Woodstock, o su Janis Joplin – e figuriamoci su Grace Slick o Joni Mitchell – neanke una parola), faceva una lunga sosta sul giro newyorkese d Andy Warhol, entusiasmandosi x i due diski dei Velvet Underground (certo bellissimi, ma a ben guardare solo due capolavori tra i mille del tempo), si appoggiava un attimino sulle spalle d David Bowie (senza dire ke le canzoni dei primi diski del Duca – i più belli – avevano una marea d accordi, in xfetto stile sinfonico), eiaculava a lungo in funzione pro Stooges, pro Black Sabbath e pro Ramones (gruppi del tutto secondari nel panorama dell’epoca), fino ad approdare con un triplo salto mortale, senza dubbi o remore, a Patty Smith, ai Sex Pistols e alla storia recente: ed ecco kiuso il cerkio. A Dylan (bontà sua) solo un cenno nominale; su Jimi Hendrix, John Lennon, Neil Young, finanke su Springsteen (il cui secondo disco del 1973, uno dei suoi capolavori assoluti, “The wild, the innocent and the E-street shuffle”, risentiva appieno dell’atmosfera “progressive”, coi brani legati l’uno all’altro da intermezzi musicali e con la tastiera in evidenza, ke a tratti pare d sentire Keith Emerson), silenzio d tomba. Gran bella “storia del rock”, onesta ed esaustiva, davvero!
Qualke tempo fa, durante una pausa d lavoro in piazza Navona, sono stato preso d petto da un 18enne punk indottrinato kissà da ki e kissà dove, seriamente intenzionato a convincermi ke Jim Morrison – diversamente da quel fottuto hippie d Dylan – era un vero punk. E xké?, gli ho kiesto. “Xké Morrison portava i pantaloni d pelle”, fu la risposta. Ho cercato inutilmente a spiegare al ragazzino ke il grande Jim era del tutto integrato e coerente con la cultura hippie d fine Sessanta: componeva poesie d un lirismo visionario, era dedito al rock-blues, cantava a voce bassa, nn strillava mai e le rare volte ke cacciava l’urlo era xké lo rikiedeva la natura del brano (si pensi a “The end”), era fieramente contro la guerra e credeva in modo assoluto nella liberazione sessuale (eroike bandiere hippie), faceva uso d sostanze psicotrope (anke troppe). Certamente, il grande Jim rappresentava l’anima estremista, una delle più pure e coerenti, del sogno hippie, tanto da doverne pagare lo scotto in prima xsona, proprio come Jimi e Janis (altri due hippies fottuti). A quel ragazzino, se avessi provato a raccontare la storia del rock sinfonico, nn avrebbe capito un’acca.
Ancora. C’è un libro intitolato “Anni 70” (sottotitolo “La musica, le idee, i miti”) scritto da uno anke bravo, l’inglese Howard Sounes, un insospettabile ke ha anke scritto un libro su Bob Dylan, ma ke, essendo nato nel 1965, nn aveva l’età utile x vedere coi suoi okki lo svolgersi diretto degli eventi. Dovendo descrivere il milieu culturale d un intero decennio, l’autore nn parla solo d musica, com’è ovvio: parla anke d cinema letteratura arte politica (Solgenitsyn è assurto a icona paradigmatica), finanke d arkitettura (l’Opera House d Sidney, il Beauburg d Parigi)), ma in tutta quest’opera mitogonica (la creazione ex novo d figure “seminali” e d codici “fondamentali”, secondo i paradigmi interpretativi postmoderni) la musica conserva una parte cmq centrale. E’ un testo pieno d informazioni, spesso curiose, ma d una parzialità e d un’incompletezza imbarazzanti. Il taglio generale del libro ha un ke d reazionario, dove la mondanità la fa da padrona, spesso nei suoi lati più frivoli e modaioli, mentre sulle tensioni sociali o sui fermenti giovanili, ke attraversarono tutto il decennio in ogni parte del mondo, nn viene detta alcuna parola concreta. Anke qui, il grande Artista della pop-art Andy Warhol incombe (con la sua cerkia d amici) come un totem iconico su tutto il xriodo storico preso in esame, con generosi squarci descrittivi sul suo stile d vita e le sue manie da prima donna, nnké sui broccati del suo letto a baldakkino e sui suoi lauti guadagni, mentre in tutto il mondo milioni d giovani vivevano sulla strada o nelle case occupate (le “cracked house”: il termine “squat” nn esisteva proprio), predicando la pace ma conducendo de facto una quotidiana guerra d posizione contro il sistema, al grido d “amore e marijuana liberi”. Nel libro d Sounes, d tutto ciò, nn v’è menzione. Il pto d vista dell’autore è “atlantico”, nel senso ke il Regno Unito e la East Coast americana sono le 2 sponde ke si palleggiano la palla d qua e d là dell’oceano. Sulla California, x esempio, nn dice nulla, sebbene nei Settanta, a fare da contraltare al rock sinfonico europeo c fosse praticamente solo il modello folk-rock della West Coast, d stanza soprattutto a San Francisco. Nelle 530 pgg del libro il nome del musicista più importante della West Coast – l’immortale Neil Young – compare una volta sola, senza nessun tipo d commento o approfondimento (!). Dal canto loro, David Crosby, Steven Stills e Graham Nash nn hanno neppure l’infimo onore della menzione: inghiottiti nel nulla. Pur essendo inglese l’autore ritiene ke nn sia il caso di dedicare un capitolo o un paragrafo né ai Pink Floyd né ai Led Zeppelin, e poi nn si accorge ke è esistita gente come i Jethro Tull o i Deep Purple (uno dei gruppi più pagati nella storia del rock: nel 1974 stabilirono il record assoluto d 450 milioni, in lire, x un unico concerto americano). Tra i film, la lente d’ingrandimento è puntata su 3 film soprattutto: il Padrino, Arancia Meccanica e lo Squalo, ma si guarda bene dal ricordare Jesus Christ Superstar e Hair, cioè le “opere rock” hippie x definizione. A un certo pto, verga un intero paragrafo sul moog, il primo tipo d sintetizzatore, ke prende il nome dal suo inventore (Robert Moog), ma tra le tante figure d riferimento riportate nel libro – del tutto sconosciute ma, da questo libro in poi, imprescindibili campioni della neo-scolastica punk-wave – egli si guarda bene dal citare il nome d ki davvero il moog lo ha usato da dio, facendolo conoscere di fatto alle masse giovanili del rock mondiale fin dal primo disco “EL&P” del 1970, e cioè Keith Emerson. A metà libro dedica congiuntamente ben 18 pgg a Dylan, Joni Mitchell e Bruce Springsteen. Ma subito poi – siamo al 1975/76 – ne consuma 30 x i soli Sex Pistols, come se l’avvento del punk fosse cosa bell’e fatta in quel breve volgere d tempo.
Ma la storia è ben diversa. X tutta la seconda metà dei Settanta il punk fu fenomeno ultra-minoritario – tutt’altro ke d massa. Era la fase finale, elefantiaca, l’infiorescenza spermatica del movimento hippie. E’ del 1978 la tournée mondiale d Bob Dylan con Eric Clapton (nel maggio d quell’anno c’ero ank’io, 21enne, a Rotterdam, nello stadio del Feijenoord, insieme a 100mila fottuti capelloni olandesi, a cantare “Layla” e “Knocking on heaven’s door”, e i ns concorrenti culturali nn erano certo i punk ma se mai la disco-music, con le melensaggini dei Bee Gees ke imxversavano ovunque in quell’anno, Olanda compresa). In Italia x altro, la nuova moda punk arrivò in una forma del tutto differente dal markio d fabbrica originario: il primo gruppo a vestirsi d nero, con gli stivaloni militari e i capelli corti (cosa impensabile fino a 3 o 4 anni prima, xké si veniva subito scambiati x fascisti e si riskiava d prendere le botte a ogni angolo d strada) furono gli Skiantos, e la loro musica nn si kiamava punk ma rock demenziale.
Al grande – paradigmatico – concerto del parco Lambro d Milano in onore d Demetrio Stratos – 14 giugno 1979: data tombale del Decennio – si esibirono:
A) gruppi rock-jazz (verso la metà dei Settanta alcuni gruppi eminentemente italiani – sia lode al Genio nazionale – avevano spostato il baricentro simpho verso il jazz, e cito i Perigeo, i Napoli Centrale e soprattutto gli Area, col più grande cantante d tutti i tempi, Demetrio Stratos, il tastierista Patrizio Fariselli – cui scroccai 100 lire alla stazione d Milano quando vivevo come un Sadhu indiano, d colletta, e fu quella l’ultima volta ke vidi Demetrio vivo – e il kitarrista Sergio Tofani, ke poi ha fatto una “brutta” fine: è finito con gli Hare Krishna);
B) gruppi simpho a tutti gli effetti (e il brano del Banco del Mutuo Soccorso, “E mi viene da pensare”, è una perla inestinguibile d bellezza e d purezza lirica – andatevelo a cercare su internet, piskelli del punk-wave);
C) cantautori (c fu l’esibizione del già screditato Venditti ke ugolava “Bomba o nn bomba”, del già classico Branduardi, nnké del Genio contrastato ma irriducibile del grande Guccini, ke con coerenza emozionale dedicò al grande e mai troppo rimpianto Demetrio la sua “Canzone x un’amica”).
Insomma. Al punk demenziale furono concessi solo scampoli d scaletta (ascoltare x credere: nel contesto della celebrazione, le cazzate del – x altri versi grandissimo – Freak Antoni, e le misere xformance dei punkissimi Kaos Rock, suonano tutte come qualcosa d avulso dal contesto, qualcosa d insulso, d insignificante.
Ergo, prendendo a paradigma culturale la storica ricorrenza della morte d Demetrio Stratos – 1979 – si evince ke fino a tutta la seconda metà degli anni 70 il punk, in Italia e nn solo, era considerato un fenomeno d costume, una moda curiosa e un po’ ridicola, ke produceva cosette simpatike (a me piacevano soprattutto le donne: Nina Hagen e Lena Lovitch; mentre Patty Smith, bellissima voce a parte, mi pareva ripetitiva e noiosa), ma culturalmente isolata, e praticamente relegata c/o sparutissime colonie d Londra o d Berlino. Tutto qui. Fu solo a partire dal 1980 – sospinta dal dark e dalla new wave, fratelli minori del punk – ke la nuova moda si affermò come fenomeno d massa, insieme allo sterminio fisico e al riflusso politico-morale degli hippies. Tutto il resto sono cazzate o menzogne.
Ma la cosa peggiore d tutte (e già ne ho dette d tremende), è ke il libro d mr Sounes, ke pure si picca d originalità e d verve underground, si conclude senza mai citare (e c sarebbero voluti almeno tre capitoli) il Rock Sinfonico: unico vero alveo musicale in tutti i sensi “underground” del decennio – se è vero, com’è vero, ke fu fatto da artisti ke se ne fregavano delle vendite, ke facevano musica x il piacere d farla e nn x scalare le classifike. E se è vero, com’è vero, ke, fatte salve poke eccezioni, la stragrande maggioranza d loro vendeva pokissimo e ke anke tanti gruppi importanti facevano “musica buona”, anziké banalità commerciali, a costo d restare dei xfetti sconosciuti in patria: gente incredibile come i King Crimson, i Van Der Graaf, i Gentle Giant e finanke – udite udite – i Genesis (almeno fino a “Selling England by the pound” del 1974) erano famosissimi in Italia e in Europa (Olanda, Germania), mentre nella madre patria inglese nn li conosceva nessuno – paradosso unico nella storia del rock. Ma tant’è: x il signor Sounes e x quelli come lui il rock sinfonico nn c’è mai stato, nn è mai esistito, è stato solo un sogno.
Ma avete idea d cosa state obliterando, voi negazionisti, col vs delirio anti-hippie? Ve lo dico io cosa state nascondendo ai ragazzini inermi e ignoranti dei ns gg, voi state negando questa montagna immensa d energia e d bellezza:
Argent, Atomic Rooster, Kevin Ayers, Camel, Caravan, Colosseum (gruppo del grande batterista John Hiseman), Curved Air, Deep Purple (almeno i primi, quelli d “Book of Taliesyn”, ma poi sono stati grandissimi lo stesso), Emerson Lake & Palmer (EL&P), Family, Genesis, Gentle Giant, Gong, Greenslade, Hatfield & the North, Hawkwind, Henry Cow, Jethro Tull (il cui leader Jan Anderson lanciò la moda del flauto nel rock), King Crimson (i cui primi 4 diski, oltre alla kitarra del genio Bob Fripp, vedevano la partecipazione d uno dei più ispirati poeti del rock d’ogni tempo: Pete Sinfield), Magma, Moody Blues (americani, ke pubblicarono nel novembre 1967 il primo disco definibile pop-sinfonico della storia), Nice, Nucleus (jazz-progresssive), Pink Floyd (quelli post Barrett), Procol Harum, Renaissance, Soft Machine (in cui militava il genio d Robert Wyatt alla batteria), gli Strawbs (folk inglese in kiave simpho), Traffic (grandissimi), Van Der Graaf Generator (del mitico Peter Hammill il quale, dopo lo scioglimento, ha realizzato dei diski da solista d una bellezza assoluta), Matching Mole (altro gruppo d Wyatt), Yes (grandissimi, con le copertine “cosmike” dei LP disegnate dal pittore Roger Dean, ma tutte le copertine dei diski simpho erano opere d’arte a sé stanti).
Vi pare poco? Ma questi erano solo i maggiori, poi c’era la messe dei minori:
Affinity, Andromeda, Arcadium, Arzachel, Audience, Axcraft, Bakerloo, Barclay James Harvest, Beggar’s Opera, Ben, Black Widow, Brainticket, Bram Stoker, Edgar Broughton Band, Pete Brown Battered Ornaments, Burning Red Ivanhoe, Catapilla, Chillum, Circus, Cirkus, Clark Hutchington, Clear Blue Sky (bel nome hippie), Clouds, Comus, Cressida, Czar, Dark, Delivery, Deviants Mick Farren, Dr.Z, East of Eden, Egg, Ekseption, Fairfield Parlour, Fantasy, Focus, Frumpy, Fruupp, Fuzzy Duck, Ghost, Sam Gopal, Gracious, Gravy Train, Greatest Show on Earth, Gryphon, High Tide, Icarus, Indian Summer, Ithaca, Jade Warriors, Jan Dukes de Grey, Jerico, Jody Grind, Julian’s Treatment, Junior’s Eyes, Junipher Green, Khan, Kingdom Come, Leaf Hound, Lucifer’s Friend (c’era anke l’amico d Lucifero), Marsupilami, May Blitz, Mighty Baby, Monument, Morgan, Mushroom, Necromandus, Nectar, Nirvana (25 anni prima d Curt Kobain), Nsu, Oliver, Out of Darkness, Panama Limited, Patto, Pavlov’s Dog (gente colta), Pink Fairies, Quatermass, Quintessence, Ramases, Raw Material, Running Man, Samurai, Saturnalia, Second Hand, Skid Row, Skin Alley, Spontaneous Combustion, Spring, Steamhammer, Steel Mill, Still Life, String Driven Thing, Tea & Symphony, Third Ear Band, Third World War, Titus Groan, Tonton Macute, Tudor Lodge, Velvett Fog, Warhorse, Web, Wigwam, Writing on the Wall, Zao, Zior.
Finito? Neanke x sogno. Nn vorremo mica dimenticare gli italiani, vero? Possiamo andare molto fieri del ns popolo, ke ha saputo dare un contributo importantissimo e interessantissimo alla corrente del rock sinfonico, con gente come il Banco del Mutuo Soccorso (Bms), la Premiata Forneria Marconi (Pfm) e le Orme, ke erano in tutti i sensi i 3 gruppi massimi del movimento simpho in Italia. Ma poi c’erano anke:
Acqua Fragile (il cui mitico vocalist Bernardo Lanzetti fece poi la tournée americana come cantante della Pfm), Aktuala (i cui membri vivevano in una comune hippie sulla montagna pistoiese), Albero Motore, Alphataurus, Arti & Mestieri (ho suonato una volta al Palladium d Roma con il loro bravissimo violinista Giovanni Vigliar), Balletto di Bronzo, Corte dei Miracoli (erano d Savona, e avevano la doppia tastiera, come gli Area), Franco Battiato (all’epoca faceva musica simil-dodecafonica), Biglietto per l’Inferno, Capsicum Red, Cervello, Circus 2000, Dedalus, De De Lind, Delirium (gruppo d Ivano Fossati quando era il miglior flautista italiano: “Dolce acqua” e “Lo scemo e il villaggio” – sebbene nel secondo LP subentrò a Fossati l’ottimo fiatista inglese Martin Grice, ke ho conosciuto xsonalmente – sono a mio avviso due pietre miliari del rock nostrano), Garybaldi (gruppo del caro Bambi Fossati, kitarrista hendrixiano ke ho conosciuto in tv da Red Ronnie nel 1997), Jumbo, Latte e Miele, Maxophone, Metamorfosi, New Trolls (due diski imxdibili x questi sampdoriani doc: “Senza orario, senza bandiera”, del 1968, su testi d De André, e “Concerto grosso”, con testi d Shakespeare e dedica a Jimi Hendrix), Nuova Idea, Opus Avantra, Osage Tribe, Osanna (napoletani, col mitico Elio D’Anna al flauto), Perigeo (prog-jazz), Pierrot Lunaire, Quella Vecchia Locanda, Raccomandata con Ricevuta d Ritorno (RRR), Reale Accademia di Musica, Rovescio della Medaglia (romani; fece scalpore quando gli rubarono il camion con l’intera strumentazione e il mega impianto), Rustichelli & Bordini, Saint Just (con la voce d Jane Sorrenti), Semiramis, Sensations’ Fix (ke cazzo d nome: le sensazioni d una pera, fanculo!), Alan Sorrenti (ki, come me, ha amato i primi 2 diski – “Aria” e “Come un vecchio incensiere…” – nn si darà mai pace x come un uomo possa buttarsi via artisticamente a quel modo), Toad, Trip (due titoli: “Caronte” e “Atlantide”, x questo gruppo d stanza a poki kilometri da Albenga, dove vivevo io, il cui bassista, l’inglese Wegg Andersen aveva suonato con Ritchie Blackmore e con John Lord dei Deep Purple) e il Volo (bel nome x kiudere una lista).
Dunque, l’unico mio vero rimpianto artistico è proprio quello d nn poter omaggiare e tributare questo genere, ke io definisco “rock sinfonico” o “simpho rock” (xké nn capisco del tutto la definizione “progressive” oggi in voga, mentre aborro, xké toto genere impropria, la dizione “rock baroque” – e sebbene nessuna delle 3 etikette fosse in vigore all’epoca, almeno in Italia: come ho detto, tutta la musica alternativa d origine anglo-americana si kiamava “musica pop”) come esso meriterebbe. Le mie incerte doti tecnike, ke mi xmettono nnostante tutto d testimoniare la mia devozione e il mio debito verso la canzone cantautorale e verso il folk rock, con le sue diramazioni dirette (la canzone popolatre, le ballads, il beat, la West Coast ecc.), mi impedisce endemicamente cronicamente geneticamente (maledizione!) d compiere il passo successivo verso quest’altro genere sublime, ank’esso così caratteristico degli Anni Felici della mia gioventù.
Nel 2006 venni ingaggiato da una costituenda cover band della PFM. I promotori del progetto erano i fratelli De Sena – Eugenio al basso e Ezio alla batteria – i quali si erano imparati, con precisione millimetrica, tutte le parti ritmike dei brani, lavorando x mesi, da soli, sull’ascolto diretto degli originali. Ovviamente, ero felicissimo d quell’ingaggio, xké mi xmetteva d colmare la mia lacuna professionale inerente il simpho-rock. Venni scelto come front-man del gruppo e nn ho mai capito xké, nn essendo io in grado d riprodurre – se nn x sommi capi – né la kitarra d Francesco Mussida, né il flauto d Mauro Pagani. In breve il mio compito si ridusse alla voce solista. Le parti d kitarra erano affidate al vekkio amico Andrea D’Angelo, ke provava le sue parti a casa, e poi le riproduceva in sala con risultati discreti, nnostante l’estrema difficoltà della materia. Ma il gruppo si incagliò sul tastierista. In un mese e mezzo ne cambiammo 3. Ogni volta ke se ne presentava uno nuovo, nn appena si rendeva conto dell’entità d ciò ke avrebbe dovuto mandare a memoria, scompariva nel nulla in men ke nn si dica. E poiké la Pfm, senza tastiere, è inconcepibile, il gruppo si sciolse prima ancora d nascere. Una débacle totale, un fallimento completo.
Poki gg prima d scappare d casa, una mattina dell’aprile 1975, all’entrata del Liceo d Albenga, incontrai il mio amico Binello. Lo si kiamava con questo pseudonimo d famiglia, tipico nick-name d quelli ke si tramandano d padre in figlio. Binello era un ragazzo simpatico ma anke skivo: quando io e i miei amici si andava al cesso a farci le canne (all’epoca: i joint), lui rifiutava sempre. Il ke era, ai ns okki, una cosa alquanto strana, xké l’amico – lo sapevamo benissimo – ascoltava la ns stessa musica: la musica pop. Quella mattina lo trovai con il disco d “Foxtrot” dei Genesis sotto l’ascella, quello dove Peter Gabriel, in una foto, appare con la riga rasata e i capelli laterali lunghissimi (il negativo della cresta punk), e a bruciapelo gli kiesi: “Quali sono i tuoi diski preferiti?”
Era – da parte mia – una domanda trabokketto. Tra le coraggiose avanguardie della musica libera, e intendo la cerkia dei miei amici hippie della Costa del ponente ligure, ma anke le ben più avanzate avanguardie d Genova (c/o le quali avevo importanti entrature), si era convenuto ke le 2 opere più eccellenti della sterminata produzione pop fossero 2 diski ben precisi. Con la mia domanda volevo verificare fino a ke pto l’amico Binello era organico alla ns posizione culturale (è ovvio ke qui sto cercando d motivare razionalmente un sentire ke all’epoca intuivo appena a livello, come suol dirsi, inconscio, ma giuro ke è tutto vero). Ebbene, Binello nn mi deluse: disse proprio quello ke io e altri 100mila giovani italiani avremmo detto in una situazione consimile: “Lizard e Island, dei King Crimson”, rispose.
Poke settimane più tardi, quando io già vivevo sulla strada, mi giunse la notizia fenomenale ke, durante il ponte del 1° maggio, Binello era stato beccato con suo zio alla frontiera tra Marocco e Spagna con 3 kili d hashish nascosti nel bagagliaio dell’automobile. Altre voci mi confermarono ke Binello faceva il corriere già da un pezzo: a ogni festa comandata lui e lo zio si recavano in Marocco x altrettali gite d piacere. Ecco xké nn veniva mai a farsi le canne con noi, nel cesso del Liceo: aveva da fumare in abbondanza. Anzi, era proprio lui – col suo mitico zio – ke riforniva d hashish il ponente ligure: lo stesso shit ke c sparavamo noi freaks d primo pelo era lui ke ce lo procurava x vie indirette. Tutto ciò avveniva nell’aprile/maggio del 1975.
Se nn ke – mi fossi mai sognato tutto – qualke anno fa (parlo del 2007), stavo in un locale d via delle Resede, a un’iniziativa organizzata dall’ANPI d Centocelle (la tessera dell’eroica associazione dei Partigiani è, a tutt’oggi, l’unica tessera ke ho, e ne sono onorato) dopo aver assistito a un concerto d jazz argentino – Piazzolla ecc. – ed ecco ke, al termine dell’esibizione, mi metto a kiakkierare d musica col fiatista del gruppo, un tipo simpatico, grossomodo della mia età (x la precisione: aveva un anno più d me), nnké musicista sopraffino. Ora, io, ogni volta ke incoccio in qualke coetaneo suxstite, sopravvissuto ank’egli all’eroina o al posto in banca (una volta si diceva “imborghesirsi”), ho il vizio compulsivo d rompergli i coglioni con il ricordo coatto della ns gioventù, dakké so x certo ke ki è passato attraverso quella generazione conserva dentro d sé qualcosa d importante, qualcosa ke me lo rende simile: è uno con cui mi posso capire su tante cose. E infatti parlammo x una buona mezz’ora della musica del ns decennio fatato e dei grandi musicisti ke lo avevano nobilitato, dalla West Coast al rock sinfonico – e senza disdegnare i cantautori. Alla fine, mentre quelli del suo gruppo lo kiamavano dalle automobili x portarlo a casa, il tipo, con la custodia del sax in mano e col passo già rivolto all’uscita, senza motivo apparente, ebbe come un impulso: si voltò verso d me e mi salutò con queste precise parole: “E cmq, io resto convinto ke i 2 diski più belli d sempre sono Lizard e Island dei King Crimson”.
Ecco: 30 anni dopo la mia discussione con Binello, un altro ex-ragazzo – romano, mica genovese – mi ha fornito la prova ke nn è stato un sogno: è tutto vero.
X quanto riguarda me – conscio dell’assurdità del dover scegliere in un universo sterminato d capolavori immortali – oltre alle 2 due opere succitate dei Crimso (rispettivamente il 3* e il 4*), aggiungo alla classifica dei migliori diski d tutti i tempi anke il primo disco “solo” d Peter Hammill, dal titolo “Chamaleon in the Shadow of the Night” (1973).
Opere difficili, ke nn si capiscono subito: spesso anzi, dopo il primo ascolto, bisogna reprimere l’impulso d scagliare il disco giù dal ponte più alto dell’autostrada Genova- Ventimiglia (o Roma-L’Aquila, ke è lo stesso, avendo ponti altrettanto alti). Dopo il riascolto, ecco ke invece si comincia a intuire, fra le pieghe d cotanta irritante insensatezza, anke qualcosa d buono. Dopo il 3* ascolto infine, sconsideratamene, nella ns testa si accende qualcosa d assai simile a una supernova. Allora si capisce ke si è al cospetto del Capolavoro assoluto. E si diventa migliori. In tutti i sensi.
ELEMENTI CURRICULARI SPARSI
(curiosità e testimonianze)
(as a street musician)
E’ il 1982, sono arrivato a Roma da 6 o 7 mesi. Suono preferibilmente con Enzo Campa detto “Wooden Fingers”. D’inverno, quando piazza Navona è deserta e le terrazze sono vuote, si va x strada o in metropolitana (senza scollettatore). Ma quando il clima lo xmette si suona davanti ai bar; spesso c si spinge verso le piazze adiacenti corso Vittorio e Campo De Fiori, ke presentano sempre ristoranti dalle tavolate belle piene. Si fa il solito show d 3 canzoni, e poi si passa col cappello tra i tavoli x cercare d estorcere più lire possibili a quelle orde del turismo internazionale o del terziario avanzato, tutte intente a foderarsi gli stomaci con bucatini al sugo d guanciale e d trippa all’aroma d piperita. All’uopo, si hanno 2 programmi diversi: 1 in inglese e 1 in italiano. Quello inglese prevede roba fuori moda x tutti fuorké x noi, roba ke a 2 voci e 2 kitarre funziona sempre un casino: “Blowing in the wind”, “Knocking on heaven’s door”, “Imagine” ecc.. Mi viene da ridere al pensiero delle mille rivisitazioni eseguite negli anni, e anke oggi, da parte d artisti bravissimi d tutto il mondo d brani come “Knocking” o come “Blowing”: all’inizio degli Ottanta un sacco d gente storceva il naso e ghignava; “Ancora ‘sta roba!”). Il programma italiano, xaltro, nn è meno fuori moda, infatti include “Lella” d Edoardo De Angelis, “Roma capoccia” d Venditti e, x terzo, un brano dei vekki Rocks, da scegliere tra “E’ la pioggia ke va” o “Ma ke colpa abbiamo noi” (in quest’ultimo caso con il consueto ripensamento del grande poeta Enzo “Wooden Fingers” Campa: “E se noi nn siamo come voi / una ragione forse c’è / e se nn la sapete voi / ma ke cazzo volete da noi?”). Al pubblico piace più questo programma dell’altro, me a noi, a forza d farlo, c rompe un po’ i coglioni, x cui si suonano quasi sempre le cose in inglese.
Quella mattina c si sta preparando x il solito giro d lavoro verso l’ora d pranzo (l’ora del pranzo degli altri) e si sta andando verso l’uscita della piazza dalla parte d via della Cuccagna quando, proprio da quella via, si vede entrare in piazza un ragazzetto giovanissimo, il quale, senza motivo apparente, c si para davanti e quasi c ostruisce la strada all’altezza della fontana del Moro. Scopriamo subito ke il motivo del suo interesse sono le kitarre ke portiamo a tracolla: “Mi presti la tua?”, mi fa. “Ok, ma una canzone sola, fratello, ke stiamo andando a lavorare”. “Ok!”, promette lui. C sediamo tutti vicini su una pankina libera davanti all’ambasciata del Brasile e il ragazzo si mette a suonare e cantare “L’uccisione d Babbo Natale” d De Gregori. Enzo nn la conosce, ma io la so benissimo. Mi metto a cantare ank’io, faccio la doppia voce su tutte le strofe. Quando il pezzo finisce, il piskello c stringe la mano e si presenta: è Cristiano De Andrè, il figlio del Maestro. Ecco xké c pareva d conoscerlo. A quel tempo, aveva 19 anni.
Sarà il 1983. Sto suonando tutto solo nel meriggio d un giorno qualsiasi in via della Croce, davanti al negozio d frutta secca e primizie e ho d fronte a me, sulla sinistra, i due telamoni meravigliosi scolpiti dal Bernini, praticamente invisibili x la gente ignorante ke, invece d inkinarsi d fronte a tanta meraviglia, passa senza degnarli d uno sguardo. E nn degnano d uno sguardo neppure me, sebbene stia esprimendo tutto il mio amore x la musa Calliope a mezzo d un’interpretazione ispirata e finanke esaltata d “Hard rain’s a-gonna fall” d Dylan. Sto x terminare la seconda strofa, dove dice: “Ho visto fucili e spade affilate nelle mani d bambini piccoli”, e sto x attaccare decisamente il ritornello, quando una seconda voce, ke mi obbliga ad aprire gli okki, si unisce alla mia. Guardo e, d fianco a me, sorridente e gongolante, vedo Ivan Graziani, ke mi accompagna in terza con il suo falsetto da bambina: “And it’s a hard, and it’s a hard, and it’s a hard” ecc.. Se ne sta lì, fino al termine della canzone, cantando e ricantando ogni ritornello. Poi mi batte sulla spalla con la mano, mi sorride, mi dice ciao, e se ne va senza lasciarmi un soldo.
Sarà il 1984, d sicuro è inverno. Mi trovo con il mio amico e collega Wooden Fingers all’uscita della Metro Flaminio, dalla parte della stazione dei trenini x l’alto Lazio, e stiamo cercando d tirare su i soldi x un panino e una birra, o alle brutte x un cornetto e un cappuccino caldo. Sebbene intabarrati nei ns cappotti, e con le sciarpe sul naso x coprirci dal freddo raggelante del corridoio, dove soffiano raffike polari ogni volta ke, là sotto, nei meandri della terra, transita un treno sotteraneo, stiamo facendo a 2 voci la versione d “Like a Rolling Stone” d Dylan più bella ke sia mai stata eseguita dal vivo. Purtroppo, a godere d tale insuperabile interpretazione, nn c sono spettatori. Dall’entrata della Metro nn viene nessuno xké fuori c’è un tempo da lupi e la pioggia batte incessante, inclemente, sul pavimento dell’atrio, tanto ke c arrivano raffike d umidità in faccia ogni volta ke, là sotto, nei meandri della terra, il treno della metropolitana riparte, risukkiando dietro d sé la corrente d’aria. Dal basso, a ogni sbarco d passeggeri, sbucano ogni tanto 2 o 3 sagome incellofanate nei cappotti e nei giacconi. Passano davanti a noi come se nn c vedessero e subito, d corsa, escono, sventrando ombrelli e arrancando come ossessi verso la luce della stazione dei trenini x l’alto Lazio. A un certo pto, una d queste ombre rallenta il passo, scosta l’orlo dell’impermeabile, intrufola la mano nella tasca dei calzoni e, davanti ai ns okki increduli, fa scivolare nel Cappello un biglietto da 1000. Nel fare quel movimento, la sciarpa gli scivola dalla faccia e io lo riconosco: è un cantautore dell’RCA, Mario Castelnuovo. Lo so bene xké io, 2 anni prima, avevo fatto amicizia con la sua donna d allora, una pittrice francese con velleità canore simil-Kate Bush, una tipa strana e un po’ pazza, ke da giovanissima aveva avuto una storia anke con Francesco De Gregori, ma ke ora era innamorata cotta d Castelnuovo e mi faceva una testa così.
Quando la canzone finisce, si hanno le dita rattrappite e il cervello ammappato. Enzo mi guarda e mi fa: “Sai ke t dico? Prendiamo il millanta d Castelnuovo e filiamo al bar”. Lo seguo fino al bar più vicino, con la kitarra a tracolla, camminando rasente ai muri dei severi palazzi del Flaminio. Zuppi fradici c si sistema a un tavolino e si ordinano al barista 2 cornetti e 2 cappuccini bollenti. Mai cappuccino fu più buono.
E’ il 1990 – fine gennaio o primi febbraio – ed è appena nata l’associazione Stradarte. Io lavoro in via della Maddalena, vicino a Montecitorio. Una mattina vedo arrivare Emanuele Franculli detto “Machu”, vicepresidente dell’Associazione. Una vera sorpresa. C si sorride, c si scambia un abbraccio e subito lui viene al sodo: “C’è da suonare alla manifestazione nazionale degli studenti medi della Pantera sabato mattina a piazza del Popolo. Ce la fai a svegliarti x tempo?” “Come no? – faccio io: – quando l’Associazione kiama, il vero busker risponde”.
Un paio d gg dopo mi trovavo ai piedi d un palco altissimo, eretto ai piedi del Pincio, davanti a 20mila ragazzi vocianti ed eccitati, ke gremivano la grande piazza romana in ogni dove. Suonare davanti a 20mila xsone è un’esperienza unica, esaltante, ke auguro d cuore a tutti i miei colleghi musicisti. Manola era in ritardo e gli organizzatori pressavano xké qualcuno salisse sul palco a intrattenere la folla, ma nessuno dei busker presenti se la sentiva. L’amico Giorgio Mazzone – il Sileno del finger-picking – mi disse: “Vai tu!”. Io protestai: “Ma devo suonare con Manola”, lui però insistette: “La faccio cantare io Manola, quando arriva. Ora vai su tu, ke c vuole uno ke faccia qualcosa in italiano”. Gli organizzatori, ke assistevano alla discussione, facevano cenno d sì con la testa e io mi ritrovai in minoranza. Nella mia testa mi ero preparato tutt’un altro programma, e ora dovevo ripensare a un approccio degno della situazione. Mi concentrai, e l’idea giusta mi balenò tra gli okki come x magia.
“Ok, vado su io” dissi, sorpreso dal mio stesso tono risoluto. Presi kitarra e armonica e salìì la scaletta del palco. Più salivo e più vedevo crescere sotto d me la marea umana, un oceano sterminato d teste ke si agitavano e ondeggiavano, ma mi sentivo stranamente tranquillo, sapevo già cosa dire:
“Allora ragazzi, io sono un artista d strada ke lavora a Roma e vi porto il saluto e l’adesione politica d tutti i busker della Capitale. A nome loro, vi dedico questo brano, la Canzone del Maggio d Fabrizio De André”, e attaccai:
“Anke se il ns Maggio ha fatto a meno del vs coraggio,
“Se la paura d guardare vi ha fatto kinare il mento,
“Se il fuoco ha risparmiato le vs Millecento,
“Anke se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti…”
Il brano terminò, e ogni singola goccia d quel mare cominciò a urlare e battere le mani, tanto ke nella piazza si produsse un tuono denso e solido, una nuvola sonora ke mi prese e mi sollevò in alto sul mondo. D certo, qualcuno presente a quella grande manifestazione, deve ricordarsi d avermi visto levitare come Tommaso D’Aquino.
Estate 1990. Noi ragazzi d piazza aderenti a Stradarte si sta con le orekkie tese e gli okki sgranati alla ricerca d qualke potenziale testimonial confuso tra la folla, dato ke x pza Navona passa d solito ogni genere d vip del cazzo e spesso anke qualke artista vero. La consegna è: bisogna riuscire a farsi dare dal xsonaggio d turno una dikiarazione scritta in favore dell’arte d strada, da far pesare poi sulla bilancia delle ns rikieste d regolamentazione nei confronti dell’autorità politica (l’assessorato alla Cultura).
I vigili urbani sono talmente stronzi ke comminano le loro multe da mezzo milione d lire nn solo a noi busker professionisti ma anke ai ragazzi ke arrivano in gruppo ogni sera a suonare e cantare col ferro a tracolla x puro divertimento e a scopo rimorkiogeno. Io li kiamo i “Birds”, sebbene dei Birds veri nn eseguano quasi nulla, xké cantano x ore i loro standard d Dylan, Springsteen e dei CCR (ma fanno anke i Clash) in coro, armonizzando le voci, coi finali d strofa allungati e vibranti ke mi ricordano proprio il modo d intendere e d interpretare le songs della storica band d Roger McGuinn e David Crosby. Scrivo su questa pagina i nomi fraterni di Peppe Palma, Emanuele Franculli detto “Machu”, Fabio Insolia e Roberto Mirasola detto “Marrucino”. Ebbene: i Birds, una sera, sono riusciti a farsi dare l’adesione alla causa d Stradarte nientemeno ke da Brian May, il superbo kitarrista dei Queen.
Uno d quei gg, sto lavorando all’ora d pranzo davanti allo storico ristorante Panzironi (ke oggi, sigh!, ha cambiato tutto) in duo, con Enzo detto “Wooden Fingers”. Tutt’a un tratto, appena sopra il livello della siepe invasata d pitosfero ke delimita lo spazio del ristorante, vedo la faccia d Robert Plant.
Mollo tutto, filo dentro il vicino bar Navona, mi faccio prestare carta e penna dal signor Antonio, gestore del bar, e torno da Panzironi d corsa, mi infilo tra i tavoli e mi vado letteralmente a inginokkiare davanti a uno dei miei miti d sempre. Tutto d’un fiato, e – è il caso d dirlo – col cuore in gola, gli spiego nel mio inglese da strapazzo il problema ke attanaglia gli artisti d strada italiani (i vigili urbani nn c fanno suonare e c fanno le multe), e gli kiedo una breve dikiarazione in ns favore. Lui nn si fa pregare, appoggia il bigliettino ke gli porgo sulla tovaglia, vicino al piatto d spaghetti, e me lo restituisce con su queste parole:
“Music is important to any great city, it should be enjoyed with kinder”.
La sua firma è una runa esoterica, un simbolo magico-misterico. Con questo tesoro tra le mani (ke avrei al più presto depositato in fotocopia all’arkivio dell’associazione Stradarte – l’originale invece, da quel giorno, è sempre rimasto appeso, debitamente incorniciato, sopra la testiera dei miei letti), tornai alla mia postazione e, insieme a Wooden Fingers, eseguii delle versioni eccitate d “Ramble on” e d “Tangerine”. Credo d essere uno dei poki al mondo ke possa vantarsi d aver cantato brani dei Led Zeppelin davanti al loro vocalist, il più grande cantante rock d tutti i tempi.
Nei primissimi 90 avevo una kitarra dura come un sercio e xciò praticamente insuonabile da tutti fuorké da me: mi sono irrobustito i legamenti delle dita e forse anke i bicipiti su quel manico impraticabile. Nn kiedetemi d ke marca fosse: in quanto strimpellatore-hippie mi sono sempre accompagnato con ferri rimediati kissà dove o imprestati da kissà ki, e nn sono mai stato capace d sottilizzare troppo sui modelli e sui numeri d serie. Ma una cosa me la ricordo bene: era nera, nera come l’inferno. Sulla cassa c avevo appiccicato un Tao. Bisognava avere l’estro del dio Apollo e i muscoli d Mike Tyson x riuscire a estrapolare un suono sensato da quel mostro, ma fu una compagna ke mi tenni vicino x 6 anni e più. D pomeriggio suonavo in via della Maddalena e d sera, con le dita indolenzite ma anke con qualke soldino in tasca, me ne andavo in piazza a suonare e a cantare coi vekki amici Birds.
La sera ke venne Daniel Lanois in piazza Navona io capii subito ke si trattava d una rock-star. Nn tanto dal suo portamento regale né dai pantaloni attillati d pelle nera, bensì dalla ragazza ke gli stava al fianco: era una dea, una vera “donna da rockstar”, una meraviglia della natura. La ns pankina, accanto alla Fontana dei 4 Fiumi, era semideserta a quell’ora, xké era scesa da poco la notte e il grosso dei Birds doveva ancora arrivare. Saremo stati 2 o 3: Ponghetto, Marrucino e io. Daniel Lanois si presentò educatamente, disse ke la sera precedente aveva tenuto il suo concerto a Roma, nn ricordo dove, e subito, anke lui, mi kiese in prestito la kitarra.
A questo punto devo fare un excursus. Più tardi, quando arrivò anke il resto della truppa, Daniel Lanois e la sua bellissima gallinella se n’erano già andati. Fu Peppe – uno degli amici musicalmente più colti – ke, sorpreso dal mio racconto dell’incontro inaspettato, mi spiegò bene ki era Daniel Lanois: era uno ke aveva prodotto e arrangiato i diski più famosi degli U2 (!), e aveva anke fatto da produttore ad alcuni lavori d Dylan (!). In quel xiodo io ero in una fase d distacco amoroso da Dylan e dai suoi lavori più recenti. La mia gratitudine retroattiva x Bobby, e x tutto quello ke aveva prodotto nei suoi primi 25 anni d carriera, era immensa. Ma dopo, x tanti anni – da “Empire Burlesque” in poi – nn sono più riuscito ad appassionarmi a un suo lavoro. In ogni album nuovo, è vero, c trovavo sempre le solite 2 perle inestimabili, ma poi il disco nel suo insieme, come “opera compiuta” (un concetto ke i giovani d internet e dell’i-pod farebbero bene a rivalutare) mi pareva del tutto insoddisfacente. Mi sono riconciliato solo d recente con Dylan, grazie al capolavoro del 2006 “Modern Times” (ke ho tenuto x 20 gg d fila nello stereo senza riuscire a sentire altro). Ma… ecco ke i lavori d Lanois insieme a Dylan erano proprio figli d quel xiodo ke io nn riuscivo a mandare giù! Ricordo ke ne parlai quella sera stessa con Peppe: “Mi pare strano ke uno ke ha prodotto gli arrangiamenti raffinati e cristallini degli U2 possa riuscire a sintonizzarsi con lo spirito torbido e sbrindellato d Dylan”. E avevo ragione. L’ho scoperto molti anni dopo, leggendo sull’autobiografia scritta d suo pugno da Dylan, “Chronicles”, del grave disagio e dei conflitti, spesso aspri, tra i due, nello studio d Lanois a New Orleans.
Ma x kiudere il ricordo d quella sera, devo dire ke Lanois fece una cosa meravigliosa. Prese la mia kitarra e la scordò. O meglio, la accordò in una tonalità strana, ke xaltro dimostrava d padroneggiare benissimo, infatti suonò a lungo, x noi e x i passanti ke si accostavano, molti dei quali – maski eterosessuali – risukkiati come asteroidi dal campo magnetico dell’Afrodite rockettara. “E’ un’accordatura interessante, c si fanno un sacco d belle cose” mi disse, smettendo d suonare e restituendomi lo strumento. Io, appena presi in mano la ferraglia, capii subito ke si era verificato un miracolo: era diventata misteriosamente morbida e maneggevole. Poggiavo le dita sulla tastiera a okki kiusi e le sentivo scivolare delicate lungo il filo delle corde senza alcuna asprezza o resistenza: la vekkia strega suonava da sola, grazie all’accordatura magica del grande Lanois. Purtroppo, neanke mezz’ora più tardi, Ponghetto – ke, al contrario d me, nn aveva ancora lavorato e aveva bisogno d denaro – mi convinse ad aiutarlo a “fare un bar”. Ma x poter suonare insieme a Ponghetto fui costretto a ripristinare l’accordatura standard: la stregaccia nera ridivenne dura come un sercio e io nn fui mai più capace d ritrovare l’accordatura xduta.
E’ il febbraio del 1994. e sto suonando da solo, in attesa del mio scollettatore ke è sempre in ritardo, a via della Maddalena, vicino a Montecitorio, dove passa ogni sorta d xsonaggio politico, dal peones al leader d partito. Mi si avvicina una bella signora, ke si presenta come “la compagna d Nanni Loy”. Mi dice: “Stiamo organizzando a casa d Nanni la festa x l’elezione d Fausto Bertinotti a segretario d Rifondazione Comunista. Siccome so ke conosci parekkie canzoni politike, vorremmo ke venissi a fare l’animatore musicale della festa”. In effetti, la mia frequentazione con Alfredo Bandelli era storia recente, e mi aveva condizionato al pto ke ogni tanto, anke x strada, quando mi rompevo i coglioni d vedere andar su e giù gente d merda, mi lanciavo in rivisitazioni provocatorie d “Bella ciao” e d “Bandiera Rossa”, tra un Dylan e un Eagles. Cmq l’occasione era ghiotta. Mercanteggiai con la bella signora la co-presenza d almeno 2 colleghi e stabilimmo il compenso. La sera mi presentai alla casa del grande regista insieme a Ruggiero detto “the President” e a Mario detto “il Mancino”, ke in quel xiodo, mentre io lavoravo x strada a via della Maddalena, suonavano in coppia a piazza Navona davanti ai bar. La festa era bellissima. C’era il vekkio Armando Cossutta con la moglie, c’era il comunista Tortorella, il comico Gullotta, una ex miss Italia d cui nn ricordo il nome (una tipa dolce dal sorriso incredibile, ke era fidanzata con uno dei figli d Loy) e tanta altra gente.
In realtà, era una festa a sorpresa. Nel senso ke Bertinotti nn ne sapeva niente. Subito dopo la sua elezione era stato in Sicilia x un breve giro d comizi, e gli era stato riferito ke, al suo rientro a Roma, avrebbe partecipato a una cena privata. Mentre si aspettava l’arrivo del festeggiato e d sua moglie – la cara Lella – dovetti constatare ke i colleghi d piazza Navona nn mi sarebbero stati d nessun aiuto. Nn appena avevano attaccato i loro standard navonari (“Solo me ne vo’ x la città”), la compagna d Nanni Loy si fece sotto, ingiungendo loro d smetterla subito con quelle “cose da turisti”, e d fare cose più consone all’occasione (c’era Cossutta, xbacco!). Presi io la kitarra, e rimasi x un istante a spiare, colmo d’invidia, i 2 colleghi ke si avventavano sulle tartine burro e salmone e sullo spumante d Alba, e compresi ke la serata sarebbe pesata tutta sulle mie spalle. Morale della favola: suonò il citofono, si spensero le luci e mentre Fausto faceva il suo ingresso nella casa buia e silenziosa, si udiva un solo suono: la mia voce ke salmodiava: “Bandiera rossa la vogliamo? Si!”
Sarà il 2003 o il 2004, e io ho già avuto i 2 infarti e sono già morto e risuscitato da un paio d’anni. In quel xiodo si lavora in piazza in 4: the President, Wooden Fingers, il Mancino e io. C si kiama, con poca fantasia e con comike pletore anglofone, i “Navona Square”. Quella mattina arrivo in ritardo. Li trovo già skierati davanti al bar Barocco nel pieno svolgimento d “Malafemmena” d Totò ma, mentre sfodero il ferro x unirmi ai ragazzi noto, dai loro sguardi d’intesa, ke c’è qualcosa d strano. So, x empatia sedimentata tra noi, ke quel genere d ammiccamento furbesco significa quasi sempre ke nel bar c’è qualcuno d importante, qualke vip il quale, in quanto tale (il vip è sempre vanesio), se ben blandito e ben servito, nn potrà esimersi dallo sganciare una munifica mancia. Nel corso degli anni, in piazza, si è suonato davanti a decine d bella gente, da Paolo Bonolis a mr Foglietta, ambasciatore USA (ke prese in simpatia the President e volle i Navona Square x ben 2 volte nella sua residenza d Villa Taverna a suonare tra i tavoli: in occasione d un 4th of July, e x il party da lui offerto a una coppia d sposi novelli molto trendy e just married: la famosa giornalista della CNN Marianne Amanpour e il diplomatico Rubin – e avranno ben saputo quelli del servizio segreto più potente del mondo, quando c rilasciavano il visto x l’entrata, ke avevano a ke fare con 3 comunisti impenitenti e d lungo corso); da Giulio Andreotti a Eugenio Scalfari (politici e giornalisti in piazza si sprecano); da Salman Rushdie al Sultano del Brunei, da Paul Guascoigne (vero benefattore d noi musicisti assetati) ad Al Bano, et coetera.
Mi avvicino col ferro a tracolla e il Mancino mi fa: “C’è Biagio Antonacci”. Ora, io sostengo ke esistono dei gradi d valore nella musica ke uno sceglie d fare. Io nn credo ke uno debba scrivere delle canzoni x dimostrare quanto è bravo e bello, o x eccitare il testosterone dei pasciuti ragazzini occidentali, già d loro in tempesta ormonale senza bisogno d ulteriori catalizzatori canzonettari (oddìo!, si può fare tutto, ma cum grano salis). Credo ke le canzoni debbano dire qualcosa d vero, ke so, raccontare una storia, lanciare qualke messaggio, veicolare un’idea ke, a un certo pto, kissà come e xké, si è fatta strada nella testa e nella vita dell’artista rendendolo migliore, e ke deve quindi servire a rendere migliori le xsone ke ascolteranno tale idea dalla sua viva voce. Se quest’idea nn c’è, scrivere canzoni è, a mio modesto avviso, attività socialmente controproducente (fanno eccezione solo gli artisti giovanissimi, ke hanno il dovere d sperimentare a ogni costo). Se poi uno scrive addirittura roba commerciale (e qui sto parlando in generale, e nn mi riferisco certo ad Antonacci, sia kiaro), al solo scopo d vendere, mirando espressamente al gusto ignorante e dozzinale dei tangheri e dei loro figli, costui merita tutto il mio disprezzo artistico.
Se nn ke, quando si passa dall’artista all’uomo, le cose spesso cambiano, e anke in modo significativo. Parlando d Biagio Antonacci (uno il cui solo nome provoca l’orchite nel 99,99% dei miei amici colti), devo qui testimoniare ke quel ragazzo fece un gesto nei ns confronti a dir poco stupendo. Quando finimmo d suonare c kiamò al suo tavolo e, in poke parole, c invitò al suo concerto della stessa sera al Palalottomatica d Roma, ma nn come spettatori, bensì – udite udite – come special guest. “Siete bravissimi – diceva: – preparatevi un pezzo qualunque, uno ke piace a voi, e venitelo a suonare stasera al mio concerto. Lascio uno spazio apposta x voi.”
E fu così ke c ritrovammo, the President, Wooden Fingers, il Mancino e io – i mitici Navona Square – al Palalottomatica d Roma davanti a 9000 xsone, nel bel mezzo del concerto d Biagio Antonacci.
Appena sbucammo nell’arena tutti s’accorsero con uno sguardo ke nn si faceva parte del pubblico abituale del cantautore. The President si era presentato vestito da Faraone, con i foulards ke gli cascavano da tutte le parti e un piccolo copricapo tubolare rosso fuoco (porta il cappello praticamente da sempre, x nascondere la pelata: vedere the President senza cappello è qualcosa d impossibile, d impensabile, un po’ come vedere il papa nudo, un nnsenso). Wooden Fingers, dal canto suo, stava in un elegantissimo gessato azzurrognolo metallizzato, con tanto d cravattina filiforme biankissima ke spiccava sullo sfondo d una “cammesella” grigia, insieme a una catena d’oro coattissima da cui pendevano ciondoli d vario tipo e natura (nessuno, in quel brilluccikìo d gioiellame vero o presunto, avrebbe fatto caso alle sue scarpe, a quel paio d stivaletti neri un po’ troppo consunti, ke principiavano a creparsi dalla parte dei mignolini). Il Mancino poi pareva ke fosse appena uscito dalla doccia e ke stesse x accomodarsi nel soggiorno d casa sua, in attesa d veder servita la cena, una sorta d Nero Wolfe (a quel tempo, Mario era ancora ciccionissimo) avvolto in una tunica d seta nera e gialla, su cui spiccavano galassie d oro zekkino. Io nn ricordo com’ero vestito ma nn ero da meno. Ma più d tutto, ciò ke c distingueva dal resto degli addetti ai lavori era ke ciascuno d noi aveva la sua brava kitarra acustica a tracolla, the President incluso – ke pure nn suona. Dalla postazione del mixer d sala, tra un nugolo d teste umane, vidi il tecnico del suono ke si sbracciava x attirare la mia attenzione. Lo riconobbi subito: era Giammario Lussana, fonico xsonale d De Gregori, ke conoscevo da 10 anni, fin da quando lui, a 19 appena compiuti, era già uno dei fonici più rinomati del panorama underground romano. “Ke c fai qui?” mi domandò, intendendo: ke c fai (tu) a un concerto d Antonacci?
“Devo suonare”, risposi.
E infatti, poco dopo stavo coi miei compagni sul palco del Palalottomatica, ke x l’occasione – x scelta dei promoter d Biagio – nn era un palco normale ma una strada, un ponte ke attraversava il palazzetto da parte a parte, da poterci camminare sopra. Diversamente dai palki normali, il pubblico, anziké d fronte, te lo ritrovavi da entrambi i lati. Un Colosseo berciante. Dopo ke Biagio c ebbe presentati (“Adesso lascio il palco a dei musicisti bravissimi ke ho conosciuto stamattina qui a Roma, a piazza Navona: i Navona Square!”), noi attaccammo “Mandolino man”, canzone travolgente d Mario Salis (il cantautore storico della piazza, ke ora vive in Francia), un brano ke descrive proprio la vita dei musicisti d strada (“Col mandolino / fanno l’inkino…”). Nn fu malaccio cantare con quella bella microfonatura senza fili, liberi d muoversi e d camminare su e giù x il palco come dei rapper, davanti a 9000 xsone. E kissà se qualcuno d essi si ricorda ancora d quella ns esibizione – d cui hanno scritto tutti i giornali – o se è solo sabbia depositata nei fondali della memoria.
Cmq sia, la storia d Biagio Antonacci serve a darmi – a darci – quantomeno una indicazione metodologica. Questa: nn sarebbe male se anke gli artisti d “avanguardia” più o meno famosi sapessero prendersi cura d altri artisti, magari meno fortunati o anke solo più giovani d loro, ma nn meno bravi, senza invidie od ostracismi, nello stesso modo – o nei mille modi ke si possono inventare – ke ha saputo mettere in atto, verso un gruppo d semplici busker d piazza Navona, l’artista d “retroguardia” ke risponde al nome d Antonacci Biagio.
(as a folkrock singer)
Nel 1996 gli Old Bench sono lanciatissimi, fanno 40 serate l’anno tra Roma e il centro-sud. A quel tempo siamo un quartetto compatto, con tutti i vantaggi del caso ma anke con gli svantaggi, x es.: c manca uno strumento solista.
Dal canto mio, sono molto amico dei ragazzi d una band d nome “Armadiammuro”, e cioè – li cito in ordine d età – il bravo Lorenzo Cortoni, il grande Guido Jandelli, mio fratello Alessio Morglia e il dolce Rodrigo D’Erasmo. Quest’ultimo suona il violino, è diplomato al Conservatorio ed è bravissimo. Allora provo a convincere gli altri Bench a risolvere il problema dello strumento solista ingaggiando proprio Rodrigo, ke all’epoca ha 20 anni. Una d quelle sere, gli Armadiammuro si esibiscono al Melvyn’s, una sala concerto gestita dal mitico Cisco, a Trastevere, in via del Politeama, sul cui palco passa il fior fiore del rock underground romano (il mio fratellone Stefano De Martini, universalmente noto come Iguana, coi suoi “Fleurs du Mal”, Luca Dominici, i Joe’s Garage e tanti altri). E quindi eccoci, noi Bench, seduti fra il pubblico mentre sul palco Alessio, Guido, Lorenzo e Rodrigo stanno x dare il via allo show. Il giorno prima, mi sono preso cura d avvertire Rodrigo, anticipandogli ke sarebbe stato sottoposto a una sorta d audizione. Lui ne è strafelice: ha una voglia sincera ed entusiasta d fare bella figura, nella prospettiva d entrare negli Old Bench in pianta stabile.
Se nn ke, quella sera, gli dice sfiga totale. Subito gli si rompe il pick-up, onde x cui deve rinunciare ad amplificare il violino con la presa diretta e ripiegare giocoforza sul microfono, ke in un contesto rock è un supporto assolutamente insufficiente x la voce d uno strumento d quel genere. X altro, i microfoni migliori del locale se li sono già accaparrati i cantanti, e l’unico ke resta è un misero cartoccetto antidiluviano ke nn amplifica neanke le cannonate. Mettiamoci il naturale imbarazzo del ragazzo d 20 anni ke sa d essere sotto osservazione, e la frittata è fatta. Rodrigo si sbraccia col suo arketto, dà fondo ad alcuni numeri tecnici assai pregevoli, ma nn si sente niente e lui, ke se ne rende conto, suona in modo sempre più demotivato e sconsolato. Quando il concerto ha termine, cerco d spiegare ai miei compagni alcune cose ovvie, ke erano sotto gli okki d tutti, e cioè ke quella prova nn faceva testo, ke nn si poteva formulare un giudizio sulla base d una serata no; e ancora provo a convincerli a prendere con noi Rodrigo (uno ke già allora suonava da dio) a prescindere dalla serata. Gli incerti sono Manola ed Eugenio il bassista, ke forse si sarebbero anke lasciati xsuadere dalla mia xorazione. Ma Ezio, il batterista, pone il veto. La sua bocciatura è senza appello, intransigente, irreversibile: “E’ troppo giovane, nn è all’altezza. Io ho suonato con dei violinisti bravi – dice citando un paio d nomi e cognomi – e vi posso assicurare ke il violino si suona diversamente!”. Stop.
Ho sofferto come un cane dopo quell’episodio. Nn tanto x la delusione da me involontariamente inferta all’amico, quanto x nn aver avuto la possibilità d averlo vicino e d suonare insieme a lui negli anni successivi. Ma devo anke dire, col senno d poi, e con tutto il bene ke gli voglio, ke x lui quella bocciatura fu un gran bene, una fortuna immensa. Se infatti quella sera lontana lo avessimo preso negli Old Bench la sua storia artistica successiva sarebbe stata tutta diversa, e ben difficilmente Rodrigo D’Erasmo sarebbe oggi quello ke è: violinista, e coautore, dei nostri AFTERHOURS.
Nel gelido febbraio del 2003, Manola è rientrata negli Old Bench e si suona in trio unplugged, lei, io e Francesco Morini, del popolare duo d comici-rock “Morini Bros” (l’altro è il grande Max Morini) alla kitarra solista. C vogliono ad Affile, un paesotto del basso Lazio, sulle montagne d Fiuggi. Siamo tutti e 3 senza makkina, x cui c facciamo dare uno strappo dal mio vekkio amico argentino Alfredo Gomez, leader del gruppo rock-reagge latino “Jahmila”, ke conosco dai primi tempi d piazza Navona, xsonaggio popolarissimo a Roma, sia xké è stato il primo in assoluto negli anni 80 ad andare in giro con i dread lunghissimi (uno dei suoi nick name è il Rasta), e sia xké ha fatto x parekkio tempo il bibitaro allo stadio Olimpico, in curva Sud, durante le partite della Roma (x cui il suo secondo nick name è, appunto, il Bibitaro: tu passeggi con lui x le vie della Capitale e quasi sempre qualcuno si sporge dal finestrino d un’automobile strillando: “A bibbitarooo!”).
Insomma, Alfredito il Rasta c scarrozza su salite innevate con la sua Uno scassata fino a questo paese, Affile, dove vengo a suonare ormai da 8 anni anke 2 o 3 volte all’anno, xké sono amico dei giovani d Rifondazione del paese e dei compagni della Pro Loco; uno d loro, Antonio, è un fan d De Gregori e mi è grato x averlo invitato 12 mesi prima al mio concerto al “Lettere-Caffè” d Trastevere (dove avevo suonato con Francesco). La sala è enorme e gremita: praticamente tutta la popolazione abile del paese è accorsa x sentire il concerto del famoso gruppo folk-country Old Bench, ingrassando le casse della Pro Loco affilana, ke distribuisce a destra e a manca piatti d pasta e fagioli e bottiglie d vino scarlatto. Nn c’è palco, ma c’è un angolo senza tavolini adibito a tale scopo, con l’impianto d amplificazione. Facciamo il sound chek, buttiamo giù una scodella d pasta, c scoliamo la prima bottiglia d vino e si attacca a suonare. Il concerto è una favola, si fanno tutti i brani folk-country del repertorio, la gente applaude, il vino scorre a fiumi e si arriva alla fine stanki e mezzo ubriaki ma soddisfatti. Se nn ke, esauriti anke i bis, si ode una voce dal fondo della sala ke strilla: “Fateci un pezzo in italiano!”. Mi dissero più tardi ke era stato Antonio a fare la rikiesta, ma lui intendeva un pezzo d De Gregori o qualcosa d simile. Io invece, nn più lucidissimo x via del vino trincato, ma anke istigato dal fatto ke spesso nei locali d Roma si kiudeva il concerto proprio così, mi scordai del tutto d trovarmi ad Affile, patria del Maresciallo d’Italia, il fascistissimo, e nefandissimo, generale Rodolfo Graziani, la cui memoria politica era tuttora viva e vegeta c/o la magna pars degli indigeni. Così mi voltai verso Francesco e ingiunsi: “Attacca “Bella Ciao”!”.
Risultato: immaginate Franco Fosca ke canta “O partigiano, portami via…” con la serafica Manola Colangeli ke gli fa il coro, e poi immaginate mezza sala – 30/40 xsone – ke scatta in piedi facendo il saluto romano e strillando amenità del tipo: “Boia ki molla è il grido d battaglia…” e avrete un quadro realistico della situazione. La canzone partigiana giunse a termine tra le urla incazzate del pubblico pagante e da quel momento in poi scoppiò una crisi diplomatica gravissima tra i tanti fasci e i poki comunisti del paese, ke c fecero subito da cordone sanitario, e si evitò la rissa x puro miracolo. Anzi, a ripensarci bene, fu grazie a un duo d giovani musicisti d Affile, insensibili alla politica, ke presero le ns kitarre e si misero a suonare dei pezzi dei Led Zeppelin, spostando almeno l’attenzione dei giovanissimi dalle questioni ideologike x riconsegnarla all’arte e alla bellezza. Quando le acque furono un poco più calme, parlando coi compagni, e x cercare d giustificarmi, dicevo: “Ma se Fini, proprio poki gg fa, ha dikiarato ke il fascismo è il male assoluto!”. Ma loro ribattevano: “Sì! Sai ke gliene frega d Fini a questi! Qui sono tutti irriducibili”.
Mentre uscivamo dal paese x guadagnare la via d casa – e al ns passaggio ancora qualke ritardatario si sgolava alla vista del Rasta al volante, con consigli amabili del tipo: “Tagliati i capelli, zozzone!” – io, seduto sul sedile posteriore, pensavo a tante cose. Al riskio reale ke avevo fatto correre ai compagni d avventura con la mia sventatezza. E a quel paese, Affile, dove ero stato a suonare x anni e dove forse nn mi avrebbero kiamato più. Ma soprattutto pensavo: “Ma come! Gli abbiamo suonato tutta la sera in faccia il repertorio anti-autoritario d Dylan e d Neil Young, gli abbiamo cantato le ballate d Woody Guthrie, ke sulla sua kitarra portava scritto “Questa makkina uccide i fascisti”, e nessuno ha battuto ciglio! Ke imbecilli!”
Ma la Nemesi storica ha voluto il mio bene. Nell’estate 2010 infatti, Antonio mi ha rikiamato ad Affile dopo tanti anni, col trio dei Tambourine (io, Roberto “Buddah” Arcipreti al basso e Claudio “Pozzio” Mancini alla kiatarra) e alla fine del programma in inglese dopo accorate rikieste da parte d ki era presente la notte dello scandalo, si è ricantata “Bella Ciao”, e stavolta in piazza, con tanto d coro del pubblico e molti pugni kiusi (cosa stranamente simbolica trattandosi d una Festa dell’Unità).
(da cantore popolare)
L’estate del 1996 è l’ultima estate felice dei Pueblo Unido, il trio d “cantori d lotta” (ma anke d cantautori, dakké ai concerti si alternano sempre i brani della tradizione ai pezzi ns), composto da Enrico Lombardelli, Maurizio Carlini e da me. L’estate successiva saremmo poi stati stroncati dal De Martino. Lì si interruppe la ns carriera.
Ma dal 1994 al 1996 fu una continua felice e irresistibile ascesa: si suonava in tutta Italia, dalle Alpi all’Aspromonte. In luglio c kiamarono alla Festa d Liberazione a Pescara. La data era fissata da mesi, ma il giorno prima del concerto c fu riferìta una notizia, raccolta alla Federazione del partito, secondo la quale la Festa d Pescara era stata assaltata dai fascisti durante la notte. “Ma è stata una cazzata – diceva rassicurante Enrico: – hanno tirato un paio d bottiglie vuote dentro il recinto e hanno gridato qualke slogan d merda, ma appena i compagni del turno d notte si sono organizzati se la sono data a gambe. In Federazione mi hanno assicurato ke è tutto sotto controllo”. E infatti arrivammo nel tardo pomeriggio col Panda d Lombardelli. Il grande piazzale antistante all’entrata della Festa era deserto a quell’ora, e noi andammo a mettere la makkina d fianco al cancello, dove già facevano la loro discreta figura 2 camionette, una della Polizia e una dei Carabinieri, con i relativi equipaggi armati d tutto pto, imbalsamati sui sedili, a cuocersi nel solleone. Sarà anke stato tutto sotto controllo, ma intanto a noi 3 un brivido c xcorreva il filo della skiena al pensiero del pericolo d altre possibili provocazioni fasciste proprio la sera del ns show. Con questo stato d’animo, si passò a capo kino tra le due camionette, si superò il cancello e si fece l’ingresso in territorio libero e comunista aggrappati alle custodie delle ns kitarre.
Il live dei Pueblo Unido – lo dico senza falsa modestia – era uno spettacolo bello davvero. La formula spartana 3 voci e 3 kitarre acustike fu una scelta d pura potenza espressiva, d impatto diretto, d feed-back immediato, visibilmente sincero e bellicoso, col pubblico. Si faceva la scaletta in massima libertà, secondo le esigenze ambientali: se c’era fermento nell’aria si partiva con “Uno, evviva Giordano Bruno”; se l’atmosfera era trepidante si poteva attaccare con “Aushwitz”; se c giravano le scatole si faceva “La Maremma” e via dicendo. A un certo pto della scaletta, la tensione fisico-emotiva del concerto si allentava, mentre nel pubblico cresceva la soglia d attenzione: era quando si eseguiva lo spezzone dei ns brani originali. Poi si ripartiva con una grinta sempre più evidente sino alla fine, e poi anke nei bis, in un crescendo partecipativo, con i maggiori standard agitatori, quelli più irriguardosi e incazzati, cantati in coro e a squarciagola da tutti i presenti. I ns concerti finivano sempre in una selva d pugni e d fiaschi mezzi pieni levati al cielo. Quella sera a Pescara il pubblico nn voleva farci scendere dal palco. Dopo 2 o 3 bis e si era già dato fondo a quasi tutto il proponibile. Restava solo la produzione d Alfredo Bandelli, ke ce la tenevamo calda x le situazioni più estremiste, dove eravamo certi ke sarebbe stata capita, e quella era la volta giusta. Cantai “La ballata della Fiat”, poi feci “La mia barba” e infine kiudemmo con “La violenza”, colonna sonora d tante battaglie metropolitane settantasettine. Quella ke dice:
“…ed ho visto le autoblindo
“Rovesciate e poi bruciate,
“Tanti e tanti poliziotti
“Con le teste fracassate,
“La violenza! la violenza!…”.
Grondanti sudore e soddisfazione si scese dal palco e si finì ancora a trakkeggiare un’oretta coi compagni, si diede fondo a qualke altro bikkiere d vino, si incassò il denaro del rimborso, e si uscì dal recinto ripassando fra le 2 camionette gravide d uomini in divisa, cui poco prima si era augurato da un microfono la rottura definitiva della scatola cranica, come se niente fosse.
“Buonasera, buon lavoro e… grazie d tutto!”
“Buonasera a voi”, risposero un paio d loro.
E partimmo sul Panda d Lombardelli, ululando d esaltazione e ammazzandoci dal ridere x tutti i 200 km della strada ke c riportava a casa.
(da promotore culturale)
Nel 1992 fondai la SACS, acrostico d mia invenzione ke stava x Società degli Artisti Comunisti dello Spettacolo. Mio compagno d avventura fu Enrico Capuano, il noto cantautore. Buttammo giù i pti salienti dello Statuto in un bar della Garbatella, vicino alla Villetta, storica sede del partito Comunista. Il ns obbiettivo era la creazione d un nucleo, il più numeroso e qualificato possibile, d artisti dello spettacolo (musica dunque, ma anke teatro, poesia ecc.), d dikiarata fede politica, capace d operare da gruppo d pressione c/o la direzione-cultura del neonato partito della Rifondazione Comunista, allo scopo d impedire le derive commerciali e gigantiste ke avevano minato la credibilità culturale dell’ultimo PCI (l’esempio ke si portava spesso erano i 60 milioni d lire sborsate x Claudio Baglioni a una Festa Nazionale). La cosa andò avanti un paio d’anni e, benké nn si possa affatto dire ke essa abbia suscitato l’attenzione positiva dei vertici del partito – ke anzi facevano d tutto x ostacolarci o al limite x usarci nei loro gioki d potere interno – fu cmq un’esperienza vera, intensa, e lo dimostra la sfilza d artisti vitali e geniali, certuni del tutto folli, ke aderirono a essa.
Aderì da subito il grande Alfredo Bandelli – gli organizzammo un paio d concerti nelle sedi del partito a Roma, e lui c ricambiò con altrettanti inviti alle feste politike della sua città: Pisa. Aderì anke il cantautore romano Toni Persia. E poi i miei futuri sodali nei Pueblo Unido, Enrico Lombardelli e Maurizio Carlini. Venne con noi (nn si avevano preconcetti o censure) anke un gruppo d incresciosi punk stalinisti, i “P38 Punk”, quattro energumeni simpaticissimi ma indifendibili, in quanto a ogni concerto ke gli si organizzava avevano la pessima abitudine d montare sul palco con sekki d vernice rossa ke, nel bel mezzo dello show, rovesciavano a casaccio, con movimenti da invasati, sul pubblico e sulle attrezzature, sui monitor, sugli ampli e via dicendo. I fonici, d solito, li corcavano d botte e i concerti dei P38 Punk finivano sempre in rissa. Aderirono alla SACS anke vari poeti e attori, e d tutti mi piace ricordare la leggiadra Edy Maggiolini, una 45enne sinuosa ke presentava i suoi curricula sterminati e zeppi d cancellature, e ke emanava uno strano odore, poiké condivideva la sua abitazione con una trentina d gatti d ogni razza e colore: una gattara attrice (xaltro bravissima). Ma il ns fiore all’okkiello fu senz’altro Piero Brega.
L’obbiettivo, d Capuano e mio, era quello d ricompattare gli artisti degli anni 70 ke avevano fatto la storia della canzone popolare, e ke adesso, all’inizio degli anni 90, erano del tutto spariti dalla scena, anke a causa del temporaneo black out dei relativi pti d riferimento organizzativi, come l’Istituto E.De Martino. C riuscimmo solo in parte, ma in almeno 2 casi la cosa andò in porto: con Bandelli, appunto, e con Brega.
Ora, io dico!: ke uno così bravo, capace d scrivere brani bellissimi e universali, con una verve poetica assoluta, una padronanza dello strumento vocale e una perizia nella tecnica kitarristica, del calibro d Piero Brega, nn abbia mai raggiunto quella notorietà a livello nazionale, e finanke internazionale, ke avrebbe oggettivamente strameritato, è una vergogna imperdonabile x la cultura moderna, una makkia indelebile sulla credibilità d certi promotori d’arte – e mi riferisco, è kiaro, ai circuiti del main stream, ma anke agli insospettabili pseudo-alternativi della produzione indipendente, ke nn hanno mai saputo distinguere le cose vere dalle insulsaggini modaiole.
Un disco come “Come li viandanti”, ke unisce le suggestioni della tradizione agreste al blues americano, il jazz al folk, il rock al rap, con matabolizzazioni lirike da grande poesia visionaria, un’opera ke sarà oggetto d studio e d approfondimento in tutte le università del XXII secolo, è vero, nn ha mai ricevuto la doverosa promozione e il giusto riconoscimento da parte dei grandi canali d diffusione musicale: un crimine contro l’arte! In questo disco imxdibile, in questo capolavoro assoluto, c’è un brano ke s’intitola “Lo gnu”. L’ultima strofa del quale oggi, nella versione definitiva, dice:
“… coi compagni d viaggio nn voglio parlar
“Nelle kiakkiere si può affogar…”.
Ma la prima versione – ke Piero scrisse proprio all’epoca della SACS – diceva:
“Con Enrico e con Franco io voglio provar
“A cambiare questa società…”.
Gliela abbiamo sentita suonare diverse volte, e diceva proprio così.
marco p38punk says:
ciao franco,
che ti dobbiamo dì?
se la metà delle cose che hai scritto su di noi fossero vere si potrebbe intavolare un dibattito…. ma qui mancano proprio le basi minime.
Di quella famosa serata al villaggio abbiamo ancora il filmato in super8 da qualche parte, dove si vede benissimo che è uno del pubblico a tirar il gesso (e non la vernice) sul povero alberto.
Vabbhè, come abbiam già detto un paio di anni fa, in occasione di un nostro al villaggio: “noi, dopo 25 anni ci siamo e al villaggio ci suoniamo. la SACS e il PRC….. bhe non pervenuti”
Le leggende metropolitane su di noi, nate sulla scia di questa prima, si sprecano.
Niente di male eh?
tutta pubblicità alla fine….
Certo che se uno che leggesse ste cose ci venisse a vedere, poi magari avrebbe delle errate aspettative e temo resterebbe deluso.
Fortunatamente abbiamo tipi di pubblico molto diversi e difficilmente tangenti.
Con reciproca e inalterata simpatia, i P38PUNK
enrico Capuano says:
sono commosso nel leggere queste storie sei e sarai sempre il più grande … compagno Franco .. ti vorrò sempre bene ….enrico capuano